L'analisi. "Facciamo chiarezza sul regionalismo differenziato"

L’analisi. “Facciamo chiarezza sul regionalismo differenziato”

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L’analisi. “Facciamo chiarezza sul regionalismo differenziato”

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mercoledì 03 Maggio 2023 - 09:38

Una riflessione, alla luce del recente disegno di legge, da parte del docente universitario Alberto Randazzo

Pubblichiamo una breve riflessione in merito al regionalismo differenziato o autonomia differenziata, alla luce del recente disegno di legge in materia. L’autore è Alberto Randazzo (nella foto), professore associato di Istituzioni di diritto pubblico (Unime) e presidente dell’Azione Cattolica diocesana. Il testo riproduce, con una minima revisione, un articolo pubblicato dall’autore sul sito dell’Azione Cattolica italiana il 9 febbraio 2023.

Premessa

Alleggerita la morsa della pandemia, come si sa, si è tornato a discorrere di regionalismo differenziato e il 2 febbraio 2023 il Consiglio dei ministri ha approvato il relativo disegno di legge. Il DDL S.615 (comunicato alla Presidenza del Senato il 23 marzo 2023), infatti, è volto a dare attuazione all’art. 116, III comma, Cost., a norma del quale, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.

Il testo

L’articolo 1 del disegno in parola fissa le finalità dello stesso e precisa che l’attribuzione delle funzioni in vista dell’autonomia differenziata è possibile solo “subordinatamente alla determinazione […] dei relativi livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (i cosiddetti Lep, livelli essenziali di prestazione). L’art. 2 disciplina il “procedimento di approvazione delle intese fra Stato e Regione”; a tal proposito, è interessante rilevare che le Camere non possono innovare all’intesa precedentemente stipulata dal Governo e dalla Regione dalla quale parte l’iter; il Parlamento può inviare “atti di indirizzo” privi di valore vincolante.

L’art. 3 dispone che la “determinazione dei Lep” deve avvenire attraverso decreti del presidente del Consiglio e ai sensi della legge n. 197 del 2022, che prevede la partecipazione di una “Cabina di regia” alla quale partecipano i ministri competenti (a supporto di quest’ultima, a fine marzo, è stato istituito il Clep, un comitato volto a definire i livelli essenziali delle prestazioni). È inoltre richiesto il parere della Conferenza unificata e delle Camere (anche in questo caso, il coinvolgimento di queste ultime appare secondario). L’art. 4 discorre del “trasferimento delle funzioni”. L’art. 5 fissa “princìpi relativi all’attribuzione delle risorse finanziarie, umane e strumentali corrispondenti alle funzioni oggetto di conferimento”, stabilendo che le suddette risorse, richieste per attuare la differenziazione, “sono determinate da una Commissione paritetica Stato-Regione”; si precisa, poi, che l’intesa “individua le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale”. L’art. 6 prevede che le funzioni amministrative trasferite alle Regioni possono essere attribuite agli enti minori, in coerenza con l’art. 118 Cost., unitamente alle risorse necessarie.

All’art. 7 si prevede che le intese abbiano una durata limitata (non superiore a dieci anni, ferma restando la possibilità di modifica e/o di rinnovo delle stesse); si regolamentano, inoltre, sia le modalità di successione delle leggi nel tempo (tra leggi statali nelle materie oggetto dell’intesa e l’intesa stessa) sia le dinamiche di monitoraggio (circa l’attuazione dell’intesa). L’art. 8 fissa “clausole finanziarie”, stabilendo – tra l’altro – che dalle intese “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” e che esse “non possono pregiudicare l’entità delle risorse da destinare a ciascuna delle altre Regioni”. L’art. 9 sancisce i modi grazie ai quali lo Stato, anche nelle Regioni che non concludono le intese, “promuove l’esercizio effettivo dei diritti civili e sociali” che devono essere protetti dai vari enti, in riferimento alle “funzioni riconducibili ai livelli essenziali delle prestazioni o alle funzioni fondamentali” (e questo “ai fini della promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale, dell’insularità, della rimozione degli squilibri economici e sociali e del perseguimento delle ulteriori finalità di cui all’articolo 119, quinto e sesto comma, della Costituzione”). In ultimo, l’art. 10 contiene “disposizioni transitorie e finali”.

Possibili criteri di valutazione

È adesso possibile provare a offrire taluni criteri per valutare il ddl ora succintamente analizzato. Per prima cosa, in generale, è opportuno sottolineare che la “bontà” di un intervento legislativo, per sua natura chiamato ad attuare la Costituzione, si misura sulla sua capacità di rispettare, in primis, i principi fondamentali e, quindi, di porsi in linea con lo spirito della Carta fondamentale.

Scendendo maggiormente nel dettaglio, occorre rilevare che la differenziazione da realizzare deve porsi al servizio dei diritti fondamentali e, in generale, dei valori costituzionali; al tempo stesso, essa deve essere in grado di favorire il rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale sanciti nell’art. 2 Cost. Dalle intese deve infatti emergere una logica solidaristica e non “individualista”; il regionalismo non può essere solo competitivo ma deve essere soprattutto cooperativo, se non si vuole incorrere in forme di separatismo che don Sturzo – padre delle Regioni – voleva assolutamente scongiurare.

A ciò si aggiunga, ovviamente, che non possono essere pregiudicate la necessaria salvaguardia dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica (ex art. 5 Cost.) e l’attuazione del principio di eguaglianza (ex art. 3 Cost.). Altra questione di non poco conto è quella relativa alle risorse economiche necessarie alle Regioni per realizzare la differenziazione; su questo piano, com’è ovvio, non devono prodursi danni alle Regioni che non stipulano le intese e, in generale, non si deve aggravare il debito pubblico. Si consideri, d’altronde, che l’istanza di regionalismo differenziato è stata avanzata dalle Regioni più ricche, con il pericolo che quelle più povere potrebbero rimanere sempre più indietro, dando vita così ad un Paese “a due velocità”.

Il rischio di pericolosi boomerang

Qualora la legge entrasse in vigore, sarebbe inoltre da verificare il merito delle richieste delle singole Regioni che desiderano dotarsi di maggiore autonomia. Per prima cosa, gli interessi regionali devono essere conformi a quelli nazionali e questo sarebbe tutto da dimostrare. Inoltre, sarebbe ben strano che le Regioni avanzassero le medesime istanze, visto che la differenziazione ha la sua ragion d’essere nei diversi bisogni e nella specifica conformazione di ogni territorio. Qualora, poi, le Regioni volessero avere una identica e più ampia autonomia su tutte le materie che in astratto possono essere loro devolute, si tradirebbe il vero senso dell’art. 116, III comma, Costituzione.

Staremo a vedere se l’iter di formazione della legge andrà a buon fine e, qualora ciò dovesse accadere, quali saranno le ricadute sul nostro ordinamento. Speriamo, però, che con il dichiarato intento di dare attuazione a una previsione costituzionale rimasta fino ad oggi “lettera morta” (T. Cerruti) non si vada incontro a pericolosi boomerang.

Alberto Randazzo

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