cronaca

“Torna amore, senza di te muoio”, invece lui la uccide. Il dramma di Lorena Quaranta negli sms

MESSINA – Si avvicina il processo d’appello per Antonio De Pace, l’infermiere del vibonese condannato per l’assassinio della fidanzata Lorena Quaranta, la giovane laureanda in Medicina a Messina, originaria di Favara, assassinata dal compagno la notte del 31 marzo 2020 nella loro abitazione di Furci Siculo.

Processo da rifare?

Il difensore, l’avvocato Salvatore Silvestro, ha depositato infatti l’appello contro la sentenza della Corte d’Assise presieduta dal giudice Massimiliano Micali che il 14 luglio scorso ha condannato De Pace alla più dura delle pene, il carcere a vita. Sul tavolo dei giudici ci sarà la richiesta di annullamento della sentenza di primo grado, inficiata dal fatto che uno dei giurati aveva più di 65 anni. Un problema che si è presentato più di una volta, dopo il precedente del processo da rifare al così detto untore di aids.

Un omicidio senza attenuanti, ecco perché l’ergastolo

Secondo il difensore, le motivazioni della sentenza, da poco depositate dalla Corte, meritano di essere riviste dai giudici di secondo grado. Motivazioni che in 60 dense pagine spiegano perché all’infermiere non è stata riconosciuta alcuna attenuante, perché non è stata creduta la tesi della sua infermità mentale, se pure temporanea. Ma soprattutto perché quello della povera Lorena, stroncata nel fiore degli anni, a un passo dalla laurea, è il più classico dei femminicidi, quello che non spiega ma racconta la “banalità del male”. La “normalità” di quella violenza che si manifesta perché “pensa di poterlo fare”, perché vede la donna come l’unico soggetto debole interno a sé, sul quale scaricare la propria frustrazione e l’incapacità di contenersi, mentre col resto del mondo ci si sente in dovere di tenere un contegno, pur sentendosi schiacciati. Quella violenza che neppure l’amore basta a mitigare.

Il presidente Micali, così, ricostruisce lo straniamento che induce la vicenda dei due ragazzi, descritti da tutti i testimoni come “…due ragazzi seri e sereni, solidi e positivi, determinati a costruire un futuro insieme, che mai avevano palesato al cospetto di terzi contegni idonei a ingenerare sospetti o perplessità di sorta.”

Quello stesso straniamento, inspiegabilità e assenza di movente che ha sbigottito i familiari di entrambi i giovani, e che ha spinto la madre di Lorena a esplodere nell’urlo, rivolto al giovane dietro le sbarre, durante il processo, “perché l’hai uccisa?”

Lo spettro del covid 19

Ricostruendo quel che è accaduto tra il 30 e il 31 marzo, poi, il giudice ripercorre anche i messaggi e le telefonate scambiate tra i due ragazzi, e tra loro e la famiglia di De Pace. Quel 31 marzo, infatti, Antonio si mette in viaggio almeno fino a Messina. Vuole tornare a casa, dalla sua famiglia, tormentato dall’angoscia dovuta alla paura del covid 19. Ai suoi che lo esortano a tornare indietro per non lasciare sola Lorena, alle prese con una influenza e sola a Furci, lontana da casa, racconta di essere inseguito da qualcuno che vorrebbe picchiarlo (una bugia forse, spiega il giudice, per motivare il suo “scappare” dalle responsabilità mentre la famiglia lo esorta a farvi invece fronte). E non risponde alle continue telefonate di Lorena. Lei prova e riprova a farsi rispondere, poi gli manda diversi messaggi. “Non lasciarmi sola”, “Ti amo, torna per favore”. “Amore torna, senza di te non vivo”.

Invece è con lui che Lorena muore. Ad un certo punto infatti lui risponde (verosimilmente è a Messina, indicano le testimonianze e le celle di aggancio del suo telefono, ma non si imbarca per la Calabria). Torna. Ma per ucciderla. Soffocandola a mani nude.

Dopo l’omicidio, Antonio chiama i carabinieri e confessa. A loro subito, e nei successivi interrogatori, dice di essere “uscito pazzo” perché aveva paura del covid, temeva di essere stato contagiato dalla fidanzata. Spiega di aver fatto dei tamponi, sostiene che anche Lorena li aveva fatti, ma non si trovano i riscontri negli schedari delle Asp. Le testimonianze? Sì, era preoccupato per il covid, era fissato con la salute, ipocondriaco in generale. Ma aveva continuato a visitare i suoi pazienti a domicilio. E quella sera voleva tornare a casa dai suoi malgrado, come lui stesso ha sostenuto, la sua famiglia fosse stata contagiata.

“La sua paura si è canalizzata tutta su Lorena, come se lei sola potesse essere la unica fonte di contagio”, ha spiegato la consulente psichiatrica, ingaggiata dal suo difensore, che ha parlato di un disturbo psicotico breve, che si è manifestato nelle ultime 12 tragiche ore prima del delitto, e si è incanalato verso Lorena.

Non è psicosi, è angoscia

“Il disturbo piscotico breve esiste, ma è molto controverso nel settore”, ha sostenuto invece il dottor Ferracuti, lo psichiatra incaricato dalla stessa Corte di periziare Antonio e stendere un dossier “super partes”. Ma soprattutto da vuoti di memoria più ampi di quelli manifestati da Antonio, e non regredisce soltanto perché si libera del fattore scatenante, il così detto “innesco”, ovvero Lorena.

Né subito dopo l’omicidio, dialogando con i carabinieri o durante l’arresto, né dopo in carcere, invece, Antonio ha più dato segni di psicosi. Neppure in carcere, dove pure era costretto in promiscuità con altri, quindi ancora più esposto a contagio da covid 19 o da qualunque tipo di rischio per la salute. Tanto meno dopo, quando poi, in carcere, di covid si è ammalato davvero. Ha invece picchiato un compagno; sputato ad un altro. Insomma ha dato segni di violenza.

Per i giudici, quindi, non c’è stato nessun disturbo psicotico, ma “solo” una enorme angoscia, indotta dalla diffusione del virus, in quei giorni terribili di inizio pandemia, che la “personalità incline alla violenza, incapace di esercitare il controllo dei propri freni inibitori, anche a fronte dei più banali stimoli (…)” ha trasformato il ragazzo in un femminicida.

Erano giorni terribili quelli, ricorda Micali, che avevano trasformato i gesti quotidiani (l’abbracciarsi, il baciarsi) in fonte di ansia, e ogni banale sintomo era interpretato con profonda paura. Stretto tra la paura, il desiderio di voler tornare a casa e il richiamo dei genitori a tornare da Lorena per comportarsi da adulto, “…Il De Pace non è stato travolto da una sensazione di concitazione emotiva improvvisamente palesatasi nella sua vita, egli al contrario per sua stessa ammissione ha sentito accrescere dentro di sé una sensazione di disagio che non ha però tentato efficacemente di contrastare”.