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Silvestri: “Merito ed eguaglianza nel segno della Costituzione” VIDEO

di Marco Olivieri, riprese e montaggio di Silvia De Domenico

MESSINA – Il costituzionalista Gaetano Silvestri, con una prolusione, ha inaugurato l’anno accademico di Unime nel nel segno dei valori della Costituzione. Presidente emerito della Corte costituzionale e già rettore dell’Università di Messina, si è soffermato sui valori della Carta in relazione al merito e alla giustizia sociale. Lo abbiamo intervistato e di seguito il suo discorso.

Il discorso di Gaetano Silvestri

1. Il costituzionalismo contemporaneo si caratterizza per la dominanza di costituzioni rigide, poste al vertice della gerarchia delle fonti del diritto, contenenti l’esplicita enunciazione di princìpi corrispondenti a valori fondamentali presenti nella cultura dei popoli e per la subordinazione della validità della stessa legge alla sua conformità alle norme costituzionali. Dopo l’immane tragedia della seconda guerra mondiale, i popoli europei (a cominciare dall’Italia e dalla Germania, che avevano conosciuto il buio della dittatura) nel ripristinare la democrazia e lo Stato di diritto, calpestati dai totalitarismi imperanti nella prima metà del XX secolo, vollero mettere per iscritto, e dare loro forza giuridica preminente, i princìpi collegati ai due pilastri del nuovo Stato costituzionale: la libertà e l’eguaglianza.

  Quella cui ho brevemente accennato è stata una gigantesca rivoluzione ideale, che ha sostituito il fondamento di autorità del potere con il fondamento di valore. La giustificazione del comando non risiede più nella forza coattiva delle istituzioni, nella capacità dello Stato di far rispettare le regole di convivenza imposte dall’alto, ma nell’adesione popolare ad alcuni valori di base, unico criterio di legittimazione degli interventi correttivi e repressivi adottabili da parte delle autorità. In tale rovesciamento di prospettiva si rinviene la ragione dell’uso del verbo “riconoscere”, da parte della Costituzione italiana, quando ci si riferisce alla tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. Essi sono un prius rispetto allo Stato, non un posterius, frutto di autolimitazione.

Dal radicale cambiamento dei criteri di legittimazione del potere pubblico discende l’elevazione della cultura a componente primaria dello Stato costituzionale. L’attiva adesione popolare ai princìpi di civiltà proclamati dalla Costituzione non si ottiene né per costrizione e neppure per passivo indottrinamento propagandistico, ma per consapevole riconoscimento di tutte le implicazioni, teoriche e pratiche, della libertà e dell’eguaglianza, intese entrambe in senso sostanziale, oltre che formale, e recepite nella società e nelle istituzioni nella loro continua, reciproca interazione. Senza indugiare troppo, in questa sede, su tali tematiche generali, possiamo dire, in forma sintetica, che lo Stato costituzionale contemporaneo – i cui princìpi ormai pienamente informano, dopo la Carta di Nizza e il Trattato di Lisbona, anche le istituzioni sovranazionali europee – è contrassegnato da una forma di democrazia pluralista e sociale, che può conoscere sviluppi e regressi, ma rappresenta comunque una scelta epocale dalla quale non si torna indietro, se non si vuole la ripetizione delle sciagure del passato, che nel presente affliggono ancora molti popoli ed aree del mondo.

2. All’apice dei valori trasfusi in princìpi costituzionali si deve collocare la dignità della persona, definita dal costituzionalista tedesco Peter Häberle la «premessa antropologico-culturale dello Stato costituzionale», da cui deriva la democrazia come «conseguenza organizzativa». Il principio personalista pervade tutto il sistema costituzionale e salda il legame, profondo e indissolubile, tra prima e seconda parte della Costituzione. La democrazia non si riduce a tecnica di composizione degli organi di governo e di adozione delle decisioni politiche, ma è valorizzazione della persona umana, che, in quanto tale, con la sua insostituibile individualità, è titolare di una quota di sovranità e pretende di esercitarla.

Con una significativa integrazione della tradizionale tripartizione degli elementi costitutivi dello Stato, lo stesso Häberle propone un quarto elemento, la cultura, che va ad aggiungersi al popolo, al territorio e al governo. Al di là di possibili controversie classificatorie, è importante che si attribuisca una funzione fondativa al patrimonio di conoscenze e di abilità ereditato da ciascun individuo o gruppo sociale dalla storia e suscettibile di continua innovazione e perenne accrescimento. La cultura, realtà immateriale oggettiva – secondo la felice definizione di Rodolfo De Stefano – non è soltanto contrassegno di identità per singoli e intere comunità, ma è pure strumento efficace per conquistare, mantenere e perfezionare libertà effettiva ed eguaglianza sostanziale. Proprio perché si tratta di un elemento connaturato allo Stato costituzionale, essa condivide con questo i due caratteri fondamentali del pluralismo e della socialità. Non può esistere una cultura unica, imposta a tutta la popolazione residente in un dato territorio, così come la stessa non è più appannaggio esclusivo di classi superiori, che ne detenevano il monopolio e perpetuavano così il loro potere.

Il rilievo primario della cultura è messo in luce dall’art. 9, primo comma, della Costituzione, non a caso inserito tra i princìpi fondamentali e non ristretto esclusivamente nei diversi Titoli che compongono la Parte I della Carta. Tale norma prescrive: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.» La cultura è considerata quindi nel suo aspetto dinamico, come un patrimonio che si sviluppa incessantemente nel tempo e raggiunge sempre nuove acquisizioni mediante la ricerca. Il riferimento è contemporaneamente alla scuola e all’università, come dimostrano altri articoli della Costituzione, che completano il quadro della componente culturale dello Stato repubblicano, le cui coordinate sono, come abbiamo già accennato, la libertà e l’eguaglianza. Da una parte la cultura, come patrimonio acquisito e trasmissibile, deve essere un bene socialmente diffuso, come dichiara l’art. 34, primo comma («La scuola è aperta a tutti»); dall’altra – in coerenza con il citato art. 9 – l’art. 33, al primo comma, proclama solennemente: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento», mentre al sesto comma aggiunge: «Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.»

La tutela, la conservazione e la trasmissione del sapere si accompagnano, in special modo nelle università, alla sua produzione. L’università, in particolare, è il luogo dove la cultura si forma in modo eminente e viene trasmessa alle giovani generazioni nel tempo stesso in cui si forma, contribuendo in tal modo all’elevazione complessiva della società ed alla sua ininterrotta modernizzazione, a livello nazionale e internazionale. Per questo motivo la cultura non vive che nella libertà. Questa non è soltanto assenza di coazioni dirette sui singoli docenti, ricercatori e studenti, ma è anche sostegno ad un’autonomia istituzionale e organizzativa che non tollera vincoli politici o ideologici di alcun genere. La riserva di legge esclude inoltre che gli atenei possano essere condizionati da atti limitativi puntuali di fonte governativa.

Il binomio indissolubile cultura-libertà spiega l’ostilità nei confronti della cultura da parte dei nemici della libertà. Negli anni ’30 del secolo scorso era molto in voga nella Germania nazista un’opera teatrale, premiata da Hitler in persona, intitolata Schlageter, in cui compare la famosa frase “quando sento la parola cultura tolgo la sicura alla mia pistola”. Nello stesso torno di anni, nell’Unione sovietica, Stalin imponeva, in modo oppressivo e persecutorio, il cosiddetto realismo socialista in campo artistico e le discutibili teorie di Lysenko in campo scientifico, mentre in Italia venivano cacciati dagli atenei i professori universitari che si rifiutavano di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista. Ha insegnato per lunghi anni nell’Università di Messina Giorgio Errera, professore di Chimica organica, che fu uno dei dodici docenti universitari, in tutta Italia, che si rifiutarono di prestare quel giuramento liberticida e furono, per questo motivo, privati della loro cattedra e della possibilità di continuare il loro lavoro.

Sulla spinta di questi infausti ricordi, i nostri Costituenti costruirono, mediante norme apposite, una salda barriera perché mai più si potesse parlare di un’arte o di una scienza di Stato, anche se, sul piano pratico, i flussi di finanziamento ai progetti di studio e di ricerca corrono sempre il rischio di essere condizionati da politiche culturali di questo o quel governo, di questa o quella maggioranza politica. Occorre in proposito un’attenta vigilanza dell’opinione pubblica informata, dentro e fuori delle università.

Non esistono ricette infallibili per coniugare felicemente libertà e qualità, giacché dietro lo scudo della libertà si può nascondere l’improvvisazione e la scarsa qualità e dietro la qualità si può celare l’attitudine discriminatoria dei centri di potere accademico. Posto questo dilemma, viene in primo piano il tema difficile della valutazione, vale a dire della misurazione del merito, sia sul terreno più vasto della società che su quello particolare dell’accesso alla cultura e della sua produzione.

3. Intorno al concetto di “merito” da molti anni ormai si sviluppa un vivace dibattito, inasprito talvolta da equivoci sul significato che tale criterio discretivo può e deve assumere in una società ed in un sistema istituzionale iscritto, come ho già accennato, all’interno delle coordinate della libertà e dell’eguaglianza. Senza approfondire oltre, in questa sede, i significati dei due termini nel costituzionalismo contemporaneo, mi sembra di poter dire che la nostra Costituzione, – in linea con una tendenza che, non senza difficoltà, si sta espandendo a livello sovranazionale e globale – tratta della libertà come libertà solidale e dell’eguaglianza come eguaglianza sostanziale. Dico brevemente che queste nuove prospettive di sviluppo, oltre le conquiste liberali conseguenti alle Rivoluzioni americana e francese della fine del XVIII secolo, non si pongono in contrapposizione al patrimonio di garanzie del costituzionalismo classico, ma ne rappresentano l’integrazione e il completamento. L’errore tragico commesso nel XX secolo è stato quello di aver ritenuto in contraddizione i diritti individuali e quelli sociali, aver ritenuto che si potesse, in qualche modo, rinunciare alla libertà per ottenere maggiore eguaglianza. Nel campo più ristretto dei criteri di valutazione delle qualità delle persone in questo o quel settore della vita associata, sarebbe ugualmente un errore contrapporre merito ed eguaglianza, invocare quell’egualitarismo che Norberto Bobbio riteneva un tradimento della vera eguaglianza, in quanto forzosamente livellatore di situazioni diverse.

Risale agli anni ’50 la riflessione dell’economista e sociologo inglese Michael Young sugli esiti discriminatori dell’impiego del criterio del merito nella distribuzione di beni e vantaggi. Sulla sua scia, si pose una serie di altri Autori, che ispirarono anche movimenti di contestazione di massa dell’idea stessa di selezione in base al merito. Si è giunti a deprecare una sorta di “tirannia del merito”(titolo di un libro recente del filosofo americano Michael J. Sandel). Può essere utile, a tal proposito, tentare di chiarire un equivoco di fondo.

La diffidenza, e persino l’aperta ostilità, verso il criterio selettivo del merito nasce dalla considerazione isolata di quest’ultimo, non inquadrato nel contesto più ampio della trasformazione sociale egalitaria preconizzata dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, cui si collega una serie di altre norme costituzionali. In assenza di una politica economica e sociale indirizzata all’eliminazione di ogni tipo di discriminazione, la selezione in base al merito non può che diventare un fattore discriminante aggiuntivo rispetto agli altri. Se eguaglianza non può significare parità di tutti in tutto, non ci si può nemmeno accontentare che non vi siano cause di esclusione di tipo giuridico-formale, dimenticando che esistono – come ci ricorda appunto il secondo comma dell’art. 3 – fattori economici e sociali che impediscono di fatto quello che, con mirabile espressione, la Costituzione definisce «il pieno sviluppo della persona umana». In altre parole, l’eguaglianza dei punti di partenza, di cui si parla con troppa facilità, molto spesso si rivela un’illusione, che diventa una beffa quando funge da alibi alla conferma del privilegio di chi proviene da classi agiate e da ambienti culturalmente evoluti. Si tratta di un merito “escludente”, che si fonda sulla semplice parità formale, ignorando del tutto quella sostanziale. La Costituzione italiana ha voluto andare oltre la parità formale, configurata soltanto come una tappa, pur necessaria, nel lungo, difficile e tormentato cammino verso l’emancipazione dell’umanità intera, ben lontano ancora dal suo compimento.

Detto ciò, resterà sempre molto difficile distinguere – per citare Ronald Dworkin – tra brute luck, vale a dire le condizioni iniziali di vita non dipendenti dai comportamenti delle persone e option luck, vale a dire quelle situazioni esistenziali dovute a scelte operate dagli individui. L’esperienza ci dimostra che, nella realtà effettiva, non esiste quasi mai la pura fortuna o il puro merito.

L’art. 34, terzo comma, sancisce: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.» E aggiunge, al quarto comma, «La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.» Al merito escludente la nostra Carta costituzionale sostituisce il merito inclusivo, unico mezzo per valorizzare le autentiche potenzialità della persona che non sia legato alla diseguaglianza di fatto dei punti di partenza. Merito che si esprime con l’attitudine a dare il meglio di sé nello studio e nell’impegno lavorativo, contribuendo in tal modo, nello spirito dell’art. 4 della Costituzione, al progresso materiale o spirituale della società.

Due notazioni su questa doppia disposizione costituzionale.

La prima si incentra sul termine “diritto” contenuto nel testo, che esclude ogni accezione caritativa o di benefica generosità, ma conferisce una potestà giuridicamente costruita. Da ciò deriva per la Repubblica, sia a livello legislativo che a quello amministrativo, il dovere di impiegare risorse, anche ingenti, per assicurare a tutti l’esercizio di tale diritto, strutturando in modo conseguente i bilanci dello Stato e degli altri enti pubblici aventi competenza in materia. La limitatezza delle risorse non può essere una scusa valida per operare tagli di spesa sul diritto allo studio. Non si investirà mai abbastanza sui nostri giovani! Una grande costituzionalista, di recente scomparsa, Lorenza Carlassare, ha scritto pagine memorabili sulle conseguenze pratiche da trarre dalla comune definizione della legge di bilancio come legge di indirizzo politico. Se tale essa è – e tutti lo riconoscono – non può che ispirarsi ai caposaldi dell’indirizzo politico costituzionale – nel senso inteso da Paolo Barile – dei quali fanno parte l’istruzione e il diritto allo studio. I tagli alle risorse destinate alla soddisfazione dei diritti fondamentali incontrano quindi limiti costituzionali e non sono lasciati al mero arbitrio politico della maggioranza di turno.

La seconda notazione è che gli aiuti e i supporti per i giovani privi di mezzi non possono essere distribuiti con criteri non imparziali – e potenzialmente clientelari – ma devono essere attribuiti per concorso.

Il criterio del pubblico concorso ha una valenza generale nel nostro sistema istituzionale, come dimostra il quarto comma dell’art. 97 della Costituzione, reiterato e rafforzato per i magistrati dall’art. 106, primo comma, che non contiene neppure la previsione di possibili deroghe per legge come nel principio valido per tutta la pubblica amministrazione. Nel concetto stesso di pubblico concorso sono incorporati i princìpi del merito e dell’eguaglianza: si selezionano i migliori nel rigoroso rispetto della parità di tutti gli aspiranti. Le deroghe cui fa cenno l’art. 97 Cost. devono corrispondere ad altrettanti interessi costituzionalmente protetti e devono comunque rimanere delle eccezioni.

Posta la condizione dell’inclusione sociale, che toglie al merito ogni effetto discriminatorio, possiamo dire, con Galvano Della Volpe, che proprio il merito è una «istanza democratica, veramente universale», che concretizza «il diritto di chiunque al riconoscimento sociale delle sue personali qualità e capacità». Merito e capacità devono essere sempre collegati, se ci si vuole mantenere nel quadro costituzionale di progressiva eliminazione delle diseguaglianze di fatto di natura economica e sociale, come ha persuasivamente argomentato Temistocle Martines, sottolineando il profondo legame tra gli art. 3 e 34 della Costituzione. La valorizzazione del merito, senza discriminazioni e privilegi economici e sociali, avvicina l’eguaglianza formale a quella sostanziale. Non si tratta soltanto di un ascensore sociale, ma anche di un fattore di smantellamento di tradizionali stratificazioni dovute al monopolio della cultura da parte delle classi dominanti, che mantenevano, e in parte ancora mantengono, al loro interno i ruoli dirigenti indipendentemente dal merito dei singoli soggetti.

La valorizzazione del merito è presente in più punti della Costituzione, a riprova che si tratta di un principio fondamentale. L’art. 59 prevede che il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. L’art. 106 prevede che, su designazione del Consiglio superiore della magistratura, possano essere chiamati all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni di esercizio professionale. In entrambi i casi, si tratta di un tributo solenne che la Repubblica vuol dare ai suoi figli migliori. L’art. 36 fa dipendere l’adeguatezza della retribuzione dei lavoratori non soltanto dalla quantità, ma anche dalla qualità del loro lavoro, curando di precisare che, in ogni caso, essa deve essere sufficiente ad assicurare a lui ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Ciò significa che la tutela della dignità della persona che lavora, come quella di qualunque persona, non può essere misurata in termini di merito, essa appunto non si acquista per meriti, come pure non si perde per demeriti. I diritti fondamentali che spettano ai detenuti nascono da questo principio di fondo non sempre purtroppo attuato nella prassi.

Il merito, se inclusivo, non è criterio di distinzione valevole solo tra individui, ma anche tra organizzazioni pubbliche e private. Il principio di tutela della concorrenza nel mercato è sempre stato presente nel sistema costituzionale, anche prima della revisione costituzionale del 2001, giacché l’integrazione tra libertà ed eguaglianza impone che le imprese che competono sul mercato godano della libertà garantita dall’art. 41 della Costituzione ed agiscano nell’ambito di un mercato regolato, in modo da trovarsi sempre su un piede di parità, tale da far emergere il merito effettivo ed escludere concentrazioni e posizioni dominanti. Il rilievo della concorrenza è stato messo in maggior luce dall’intensificarsi dell’integrazione europea e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, oltre che delle Corti costituzionali nazionali, tra cui quella italiana. Non si deve trattare tuttavia di una competizione sfrenata e senza regole, che non valorizzerebbe il merito, ma la forza e la tendenza alla frode. In definitiva, la competion on merit deve svolgersi in un quadro di regole orientate a salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini, dei gruppi sociali e delle comunità, che non possono essere ciecamente sacrificati

Quanto ho appena detto fa risaltare la centralità del bilanciamento tra principio del merito e principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione. Ciò è particolarmente rilevante nella competizione tra territori ed enti che li governano, giacché le divaricazioni di reddito, aventi cause storiche profonde, rendono quanto mai problematica l’eguaglianza dei punti di partenza, senza la quale, come dicevo prima, il criterio del merito finisce con determinare ingiuste discriminazioni. Anche la competizione tra università può portare ad un complessivo miglioramento della qualità della didattica e della ricerca, superando vecchie pigrizie ed eliminando sacche di inefficienza, come, al contrario, può rafforzare indefinitamente gli atenei più forti e inseriti in territori più ricchi a danno di altri meno favoriti dai contesti economici e sociali. L’incontro tra competizione e solidarietà si traduce nella necessaria politica perequativa che deve coinvolgere sia gli enti territoriali (quali regioni ed enti locali) che non territoriali, quali appunto le università. In carenza di interventi perequativi mirati e calibrati sui risultati, si otterrà solamente l’aumento delle diseguaglianze.

4. Il punto cruciale (e dolente) della problematica del merito sta nelle tecniche della sua misurazione e nell’individuazione dei soggetti che possono e devono effettuarla nei diversi campi e nei casi concreti. Chi merita di valutare il merito? E come lo deve fare?

La risposta a tali quesiti è difficile e complessa; non posso pretendere di dare risposte esaustive, specie nei termini necessariamente sintetici di questa prolusione. Mi limito a dire che il giudizio sul merito di chi è sottoposto alla valutazione, nei vari campi e sotto profili diversi, soffre inevitabilmente della relatività e della fallibilità proprie della conoscenza umana. Non sarebbe ragionevole pretendere l’eliminazione di ogni, pur minimo, margine di apprezzamento discrezionale. Purché di piccoli margini si tratti e non di arrogante arbitrio di chi detiene il potere di giudicare o, peggio, di parzialità preconcetta legata a interessi inconfessabili.

Il progresso culturale di una comunità è legato, oltre che alla libertà, alla media osservanza di regole morali condivise dalla maggior parte dei consociati. Sono certamente utili procedure e tecniche volte a rendere quanto più oggettiva la misurazione del merito. Nel nostro mondo universitario il discorso vale sia per la valutazione che i docenti devono effettuare sugli studenti in occasione degli esami, sia per la valutazione alla quale i docenti stessi, in quanto studiosi e ricercatori, devono sottostare per l’accesso e la progressione in carriera. Gli esami non finiscono mai, diceva, con amara ironia, Eduardo De Filippo ed è giusto che sia così. Con disponibilità ed umiltà tutti dobbiamo aspettare trepidanti l’esito delle valutazioni sulle nostre prestazioni. Riusciremo meglio a farlo se avremo fiducia nella probità di chi ci deve giudicare. In una società libera e democratica, il giudizio (anche quello sul merito) deve essere accettato sulla base della stima e della considerazione che si nutrono non soltanto per il sapere del giudicante, ma anche per il convinto riconoscimento della sua retta coscienza. Occorre non allentare mai lo stretto legame tra potere e responsabilità, anche se bisogna evitare di giungere al paradosso della responsabilità senza potere.

Dal giudizio del magistrato in una causa, a quello del professore in un esame, a quello di una commissione di concorso, nulla può sostituire un ethos collettivo così sentito da indurre comportamenti virtuosi spontanei e naturali, senza necessità di controlli asfissianti e continue minacce di sanzioni e senza che ogni ovvio atto di onestà e rispetto delle regole venga esaltato come eroismo. L’esistenza di una moralità diffusa dà la misura della civiltà di un popolo. Nessuna procedura automatica o criterio puramente quantitativo ci darà mai la certezza della giustizia, mentre talvolta funge da paravento a pratiche illecite. Nelle comunità accademiche di tutto il mondo cresce la consapevolezza della necessità di mitigare l’abuso dei criteri quantitativi nella valutazione della ricerca scientifica e dei prodotti culturali.

Corriamo oggi il serio pericolo che, dietro una serpeggiante sfiducia nell’autorevolezza scientifica e morale di chi è chiamato a giudicare, si nasconda il rifiuto dell’impegno e del sacrificio necessari per ottenere un risultato. Se viene meno la fiducia dei docenti nella comunità scientifica di riferimento, perché lamentarsi se, a loro volta, gli studenti respingono l’autorità dei professori e pretendono di essere promossi sempre e comunque? Se queste tendenze si accentuassero, si dissolverebbero le basi elementari dell’istituzione universitaria e scolastica. Per fortuna non siamo ancora a questo punto, ma si intravedono in proposito segnali preoccupanti. Sarebbe ipocrita negare che fenomeni di malcostume esistano ed inquinino valutazioni e giudizi a tutti livelli, ma ciò non significa che esista un diritto a superare un esame o un concorso. Una simile pretesa sarebbe il frutto più avvelenato delle pratiche corruttive e clientelari, che pur esistono.

Il rimedio a questa pericolosa tendenza verso la pretesa del tutto gratuito, assecondata dai demagoghi di turno, non può essere una progressiva semplificazione e facilitazione degli studi, credendo con ciò, anche in buona fede, di andare incontro all’eguaglianza. Si tratterebbe della peggiore delle discriminazioni perché la dequalificazione e la volgarizzazione della cultura equivarrebbero a distribuire cibo avariato a chi soffre la fame, continuando a riservare la buona cucina a chi ne ha sempre goduto.

Un impegno severo, istituzionale e personale, per la valorizzazione del merito senza discriminazioni economiche e sociali, come vuole la Costituzione italiana, è l’unica, anche se talvolta amara, medicina per curare il male della decadenza e per proiettare invece l’università verso sempre più avanzati traguardi di sapere innovativo. Sono sempre valide le parole di Antonio Gramsci sullo studio, concepito, senza retorica, come «un processo di adattamento […] un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.»

Alla mia non più giovane età ricordo ancora con commozione e riverenza i Maestri che hanno contribuito alla mia formazione. Non auspico il ritorno all’autoritarismo baronale del passato, ma spero fortemente che le giovani generazioni di docenti e studenti, con il loro studio, il loro sacrificio e quindi il loro merito, sapranno difendere e accrescere il patrimonio culturale che oggi ricevono, per consegnare alle generazioni future una università all’altezza delle sue migliori tradizioni.