Cosa succede quando la finanza è più forte dell’industria
Giornali, economisti, politici, banchieri e compagnia cantante assicurano che la colpa della crisi economica che ha colpito il mondo occidentale nelle ultime settimane è della speculazione finanziaria.
Probabilmente è vero e usiamo volutamente un avverbio che lascia qualche margine di dubbio perché fin troppe sono state le cantonate prese dagli economisti negli ultimi decenni.
Comunque, non c’è bisogno di studi approfonditi, per comprendere che i raffinati strumenti finanziari a disposizione dei grandi speculatori consentono di causare una valanga tirando una pietruzza.
In ogni Borsa del mondo, ad esempio, si può scommettere sul quale sarà il futuro prezzo di tutto ciò che ha valore commerciale. Dal riso alle azioni Fiat, dal petrolio ai titoli di stato greci.
Si chiamano vendite allo scoperto e consentono di rischiare solo una frazione del prezzo del titolo sul quale si scommette.
Vendo oggi una cosa (che non ho) per riacquistarla domani (senza prenderla realmente), quando penso che costerà di meno.
Se il prezzo scende guadagno la differenza.
Al termine del giro non mi rimane nulla della cosa venduta e comprata (o viceversa), solo un po’ di soldi – se ho azzeccato la previsione – o qualcosa da pagare, se l’ho sbagliata.
Così facendo rischio relativamente poco ma posso causare un grosso danno, perché la mia puntata influenzerà proprio il prezzo della cosa sulla quale ho scommesso.
Per capire quanto sia importante lo strumento delle vendite (e degli acquisti) allo scoperto per la finanza mondiale è sufficiente guardare al caso Porsche, la casa automobilistica che produce auto di lusso e di sofisticata tecnologia. Nell’anno 2007-2008 ha venduto 98.652 automobili, incassando 7,46 miliardi di euro e registrando utili per 6,352 miliardi.
Verrebbe da pensare che il costo delle materie prime e del lavoro sia una frazione molto bassa del prezzo di vendita di una Porsche Carrera o di un SUV Cayenne.
Invece non è così: dei 6 miliardi e mezzo di utile, solo 1 viene dalla vendita delle auto, 6 e mezzo da operazioni finanziarie.
La componente industriale è secondaria rispetto a quella finanziaria.
Quello della Porsche è certamente un caso limite, ma mostra con chiarezza come oggi la finanza può creare molta più ricchezza dell’industria.
E in modo certamente meno faticoso.
Ma è ricchezza fasulla, da cui la famosa frase di Sergio Marchionne, l’AD della Fiat, che definì la Porsche Un hedge fund (i fondi speculativi ad alto rischio) che fa ANCHE automobili.
Va da sé che il valore reale della casa automobilistica – impianti, brevetti, magazzino, capacità produttiva, qualità di management e maestranze, etc. – non è variato di molto durante l’anno esaminato, ma gli utili degli azionisti sono stati eccellenti e così il prezzo delle loro azioni è cresciuto notevolmente.
L’anno successivo, operazioni finanziarie sbagliate – Porsche scommise sul calo delle azioni Volkswagen, sperando di arrivare al suo controllo – portarono a una gravissima crisi di liquidità e la casa fu costretta a fondersi proprio con la grande casa di Wolfsburg.
Conclusione: i problemi sono colossali ma forse appaiono più complessi di quanto sono in realtà.
Un sano buonsenso potrebbe ridimensionarli: preso atto che in Borsa vi è un’ampia gamma di operazioni speculative che alterano profondamente l’andamento del mercato dei capitali – dalle azioni alle materie prime, fino all’entità del debito di interi Stati -, perché non vietarle?
Perché i Governi devono subire la prepotenza della grande finanza, mettendo così in pericolo la solidità delle monete e di intere nazioni?
Un rimedio troppo semplice?
Sarà, ma è proprio ciò che ha fatto Angela Merkel ieri.
