Attore protagonista della scena politica italiana dell’ultimo mezzo secolo, un politico vero che ha fatto la storia di questo Paese, nel bene e nel male. Il vostro ricordo nello spazio dei commenti
E’ un pezzo di storia di questo Paese che se ne va, da qualunque punto la storia la si voglia vedere. Un pezzo controverso, attore protagonista della scena politica italiana degli ultimi cinquant’anni. Francesco Cossiga, presidente emerito della Repubblica, “don Cecio da Chiaramonti”, come amava farsi chiamare, è morto oggi alle 13.18, per arresto circolatorio, al Gemelli di Roma. Aveva 82 anni. Oltre metà delle quali (a trent’anni era già deputato) trascorsi nella e per la politica. E’ stato l’ottavo presidente della Repubblica, dal 1985 al 1992, quando assunse l’ufficio di senatore a vita, preludio al titolo di presidente emerito della Repubblica italiana, conferitogli per decreto.
Cossiga il “picconatore” è stato al centro di molte, se non tutte, le vicende più importanti della politica italiana dell’ultimo mezzo secolo. Ad esempio il caso Aldo Moro, che l’allora ministro dell’Interno seguì da vicino (creò due “comitati di crisi”, uno ufficiale e uno più verticistico, intriso di componenti che in seguito sarebbero risultati iscritti alla P2), talmente da vicino che il giorno dopo la morte di Moro, Cossiga, che insieme ad Andreotti rifiutò qualsiasi trattativa con le Br, diede le dimissioni. «Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle – disse all’epoca – è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro».
Altra vicenda controversa che vide Cossiga protagonista fu quella della “Gladio”, l’organizzazione dei servizi segreti legata all’americana Alleanza Atlantica. Ne fu sovrintendente dal 1966, quando entrò per la prima volta al governo, ma le carte della “Gladio” vennero allo scoperto molto dopo, su input del presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Quando Cossiga aveva smesso i panni dell’uomo di governo fedele ai principi della Prima Repubblica, di “notaio” della politica, per vestire quelli del “picconatore”, a seguito della svolta per lui epocale della caduta del muro di Berlino. Iniziò una perenne fase di polemica politica, «il grande esternatore» diventò «il picconatore» perché, appunto, ritenne necessario dare delle «picconate a questo sistema». E da esternatore disse un po’ di tutto a tutti, compreso, ad esempio, il magistrato Rosario Livatino, da lui definito polemicamente «il giudice ragazzino», prima di essere ucciso dalla mafia nel 1990. Poi c’è “Mani pulite”, tangentopoli, una fase di distacco, nuove picconate («la Dc è da lapidare!»), un riavvicinamento ad un mondo che non lo ha mai visto lontano. Nemmeno negli ultimi anni, quando le “picconate” si sono trasformate in consigli, ora a Silvio Berlusconi nel mezzo della bufera per gli scandali della scorsa estate, ora a Gianfranco Fini, nei giorni della rottura del sodalizio col premier. L’esternatore se ne va così, col piccone in mano e un messaggio, lasciato alle parole impresse nel suo ultimo libro, pubblicato nel maggio scorso: «Fotti il potere».
