Intervista con Gerardo Adinolfi, autore del libro -Dentro l'inchiesta, l'Italia nelle indagini dei reporter-
«Un giornalista che non fa un minimo di investigazione non è un giornalista, perché investigare significa farsi delle domande». Parte da queste considerazioni iniziali il viaggio che Gerardo Adinolfi, giovane praticante giornalista di Nocera Inferiore, offre in Dentro l’inchiesta,L’Italia nelle indagini dei reporter. In questo che è il suo primo libro, l’autore prova a spiegare l’evoluzione del giornalismo d’inchiesta, un genere che molti considerano scomparso ma che secondo forse è semplicemente cambiato. Rimanendo a metà strada tra il saggio e il racconto, le oltre 240 pagine di Dentro l’inchiesta guidano il lettore in un percorso a tappe che procede raccontando i fatti che negli ultimi sessant’anni hanno contrassegnato la storia d’Italia. La morte misteriosa del bandito Salvatore Giuliano, il piano Solo, lo scandalo Lockheed e la strage di Ustica sono alcuni degli avvenimenti che sono rimasti nella memoria collettiva. Adinolfi li ha voluti ricostruire cercando di valorizzare il lavoro giornalistico che ha portato a queste scottanti verità, perché come ama dire «il giornalista non è una cassetta delle lettere».
Come è nata l’idea di dedicare un libro al giornalismo d’inchiesta?
«Mi sono occupato di questo argomento anche nella mia tesi di laurea “Il giornalismo investigativo e l’informazione antimafia in Italia”. Questo tema mi ha sempre appassionato e ho voluto approfondirlo. I contenuti del libro nascono sia da lavoro di archivio sia da vere e proprie interviste ai protagonisti di alcune inchieste importanti. Ho raccolto le testimonianze di Alessandro Sortino de Le Iene, di Fabrizio Gatti de L’espresso e Sandro Provvisionato di Terra!, e molti altri. Li ringrazio tutti perché sono state utilissime».
“Giornalismo è diffondere quello che qualcuno non vuole che si sappia. Il resto è propaganda”. Perché hai deciso di aprire il libro con questa frase di Horacio Verbitsky?
«Perché ritengo che l’obiettivo di un buon giornalista sia andare dentro le notizie e non limitarsi a semplici resoconti. Bisogna portare alla luce i fatti nascosti. Ho voluto confrontarmi con chi ha già fatto grandi inchieste proprio per capire come si fa. E ho provato a spiegarlo».
Secondo te quali cambiamenti ha comportato la comparsa di Internet per chi vuole fare un’inchiesta?
«La differenza maggiore è che oggi un’inchiesta può viaggiare su diversi mezzi di informazione. La convergenza mediatica ha cambiato molte cose. Report può essere visto sia in televisione che sul computer. Le inchieste di Exit su La 7 vengono commentate in un forum. Poi ci sono nuove possibilità per elaborare i dati. Come mi ha detto il giornalista Andrea Cairola “oggi si può fare tutto”».
Tra tutte le inchieste che racconti, quali secondo te hanno un’importanza maggiore?
«Sicuramente quella di Tommaso Besozzi sulla morte del bandito Salvatore Giuliano. Il suo “di sicuro c’è solo che è morto”, è il primo esempio di giornalismo d’inchiesta in Italia. Poi le indagini di Giampaolo Pansa e Gaetano Scardocchia sullo scandalo Lockheed, perché hanno portato alle dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Un caso unico in Italia. E poi le recenti inchieste di Fabrizio Gatti, un grande esempio di inside story».
Alla luce del tuo lavoro, sei arrivato anche tu alla conclusione che in Italia ci sia poco giornalismo d’inchiesta?
«Secondo me no, e non lo ritengo nemmeno un fenomeno di nicchia come lo chiamano in tanti. Le Iene, Report, Exit o Current Tv vengono viste da milioni di persone. Secondo me è cambiata la capacità delle persone di indignarsi e di agire di conseguenza. Un altro problema è che ovviamente le inchieste serie hanno costi elevati. E in Italia non c’è la propensione a pagare l’informazione. Però esiste un sito come Spotus.it, uno dei primi portali italiani di crowdfunding, ovvero inchieste pagate dai cittadini».
Il blog di Dentro l’inchiesta è consultabile all’indirizzo http://dentrolinchiesta.wordpress.com/
