Il giornalista Martino Cervo spiega a Tempostretto.it come cambierà l'America dopo le elezioni di MidTerm e la vittoria dei Tea Party
Il responso delle attesissime elezioni di MidTerm statunitensi ci consegna un dato di fatto: Obama non luccica più come ai tempi della campagna elettorale e il suo celebre motto, il suo Yes, We Can che infiammava le masse e ha portato in massa i giovani al voto, oggi sembra assai sbiadito cedendo il posto ad un irriverente Less We Can (Possiamo Meno). I giornalisti Martino Cervo e Mattia Ferraresi, rispettivamente capo-redattore di Libero e corrispondente da Washington per Il Foglio, hanno studiato con grande cura l’ascesa mediatica del presidente Barack Obama, considerato da molti come un nuovo profeta tanto da essere premiato con un Nobel per la Pace prima ancora di aver ottenuto alcun risultato. Il punto di partenza del loro interessante libro Obama – l’irresistibile ascesa di un’illusione (Rubbettino editore, prefazione di Giuliano Ferrara, pp.130, €10), è proprio il collegamento con il monaco eretico Gioacchino da Fiore che, per la prima volta, viene smascherando rivelando una bufala mondiale…
Martino com’è nato il vostro libro? Analizzate il -fenomeno mediatico- Obama con grande cura e sotto un’ottica contro-corrente che, di certo, era necessaria.
«Il libro è nato qualche mese fa per aver avvertito un sospetto nella cascata d’incenso riversata su Obama, soprattutto da parte dei media italiani. “Coinvolti” come sono stati nel racconto del mito del ragazzo hawaiano che dall’Indonesia arriva ad Harvard e poi corre per la Casa Bianca, sono divenuti falsanti nel racconto della realtà. Nell’indagare sulla misteriosa citazione di Gioacchino da Fiore, monaco mezzo santo e mezzo eretico del 1300, da parte dell’allora candidato, ci siamo imbattuti in una bufala piuttosto clamorosa. Obama infatti quelle parole non le ha mai pronunciate. Eppure il fascino del legame tra l’icona politica e il mistico calabrese le hanno propalate in tutto il mondo. A suo modo, forse, è un segnale di come la grande pretesa di Obama, che ha offerto se stesso come possibilità di cambiare il mondo, avesse fatto presa, come un’eresia secolarizzata».
Le elezioni di MidTerm segnano una sconfitta importante per i democratici e l’uscita di scena della Pelosi è perlomeno significativa. Come cambierà adesso l’equilibrio?
«Si aprono due anni estremamente interessanti. La coabitazione tra un presidente democratico e un congresso repubblicano (e viceversa) non è certo una novità. Come altri predecessori, Obama ha l’occasione di battersi, compromesso dopo compromesso, per un percorso condiviso che, a fine mandato, potrebbe essere il miglior viatico per la rielezione. Certo, nel suo caso fa più effetto dover scendere a patti coi rivali perché lui aveva fondato il suo consenso su un’aura quasi magica. Ma non è detto che per Obama, da sempre un grande pragmatico nonostante le apparenze, sia un male».
Il movimento del Tea Party ha stravolto gli equilibri, prendendo in contropiede anche parte dei commentatori politici. Come spiegate l’importanza assunto in breve tempo da questa frangia?
«I temi dei Tea Party sono costitutivi di ampie fasce del conservatorismo tradizionale americano: non a caso si ispirano fin dal nome all’evento fondativo degli Usa. Da un certo punto di vista è normale che un governo di sinistra susciti più marcate rivendicazioni individualiste, libertarie e anti-spesa. Quel che ha colpito è la forza del fenomeno, che cambierà anche l’assetto del partito repubblicano. Se il Gop saprà gestire il momento dei Tea Party, potrà farne un utile elemento di allargamento del consenso. Altrimenti, rischia di farsi scavalcare a destra e spaccare con effetti gravi. Qualcuno ha suggerito che puntare su politiche di sinistra radicale potrebbe favorire Obama proprio perché esalterebbe la reazione del Tea Party, evidenziando la frattura con l’anima più istituzionale dei repubblicani. È una tesi ardita, ma che ha elementi interessanti».
Il dissenso giovanile in forte crescita forse è il segnale più importante della battuta d’arresto di Obama. Insomma se la disoccupazione giovanile (e non solo) aumenta nemmeno la riforma sanitaria può far miracoli?
«È così. Di sicuro i posti di lavoro che i primi due anni di mandato non hanno “creato” avrebbero comunque favorito l’opposizione: è lo stesso processo che, in parte, ha punito John McCain nel 2008. Quando l’economia va male, chi governa paga: ora è toccato a Obama. La riforma sanitaria sarà con ogni probabilità il grande tema del compromesso con i repubblicani. Non è escluso che questi acconsentano agli inevitabili aumenti delle tasse necessari per ripianare il deficit mostruoso chiedendo come “scalpo” politico proprio il fiore all’occhiello delle riforme obamiane».
Un passo indietro sulla questione della moschea a Ground Zero: Autogol o manovra politica azzardata?
«Obama ha fatto quella che in Italia volgarmente si direbbe paraculata: una generica anche se coraggiosa dichiarazione di princìpi che gli è valsa lodi sperticate dall’area liberal, ma sapendo benissimo di non avere voce in capitolo, e sapendo soprattutto che le amministrazioni locali non faranno costruire la moschea. È un esempio ottimo dell’intreccio sapiente di idealismo e realismo che ha caratterizzato l’impatto pubblico del presidente».
Infine, cos’è successo al -WE CAN- di Obama?
«È finito da tempo il momento magico, quello del vivificatore di sogni che – proprio come Gioacchino da Fiore – profetizzava ere nuove in cui l’uomo e il mondo sarebbero cambiati, per sforzo umanitario e volontarista. I conti con la realtà sono salati e l’America ha un meccanismo formidabile di rappresentanza con cui presentare questi conti senza compromettere la governabilità. È già stato coniato l’irridente “Less we can” (possiamo meno) che rende bene il declino di Obama. Come detto, però, Clinton ha fatto della stessa situazione (una “batosta”, come l’ha definita il presidente, al Midterm) il trampolino per un secondo mandato. L’equilibro dinamico che si stabilità tra Obama, i democratici e i repubblicani con l’incognita Tea Party sarà il terreno di prova per un presidente meno demiurgo e più politico».
