Cultura e spettacoli

“Familia Paone”: identità sospese in un finale inaspettato

Due attori, nove personaggi. Dopo una lunga tournée in Sud America, per la sua prima italiana, arriva al Teatro dei 3 Mestieri di Messina – all’interno della rassegna “Tracce d’inchiostro” – la “Familia Paone” (Produzione Teatro Stabile d’Abruzzo), con la regia e l’interpretazione di Rossella Gesini e Stefano Angelucci Marino (che è anche autore del testo).

Le maschere

Due maschere antropomorfe permettono agli attori di trasfigurarsi nei diversi e strampalati componenti della famiglia Paone. Modellate sui loro volti, lasciandone scoperta solo la bocca, le maschere sono, per gli interpreti, tutto il contrario di un limite. Divengono, piuttosto, strumento amplificatore della loro forte espressività, comunicata tramite una mai esagerata ma incisiva corporalità, con pose e gestualità precise. Un’unione efficace che ci lascia comprendere ogni sfaccettatura caratteriale dei personaggi, ogni peculiarità distintiva, ogni emozione ed ogni fragilità. L’utilizzo delle maschere valorizza, quindi, tanto l’aspetto comico della narrazione, quanto quella strada che lentamente la porterà ad abbandonare il comico per il tragico.

Migranti: identità sospese

Lo spettacolo ha origine dall’esperienza teatrale vissuta in Argentina, Uruguay e Paraguay dai due attori e registi. Dopo essere entrati in contatto diretto con la prima, seconda, terza e quarta generazione dei migranti italiani in Argentina e con le complessità del loro vissuto, Gesini e Angelucci Marino hanno sentito il bisogno di dare forma artistica a quel senso di vuoto causato dalla perdita delle proprie radici.

Nasce, così, la “Familia Paone”. Questa particolare famiglia, piena di comicità, porta sul palco il racconto di vite incrociate. I personaggi tracciano un percorso da una generazione all’altra e da un modo di vivere la vita all’altro; storie diverse ma tutte segnate da una stessa identità sospesa, in bilico tra Argentina e Italia, pur nel diverso modo di intenderla e farla propria. I nonni – prima generazione, in Argentina ormai da anni – non riescono proprio, per esempio, a riconoscersi in questa identità di argentini; i figli, al contrario, sembrano voler difendere un’ostentata “argentinità” che li porta a rinnegare quanto invece l’essere italiani caratterizzi ogni aspetto di loro stessi, del loro modo di essere.

Uno spettacolo bilingue

Il senso di questa identità sospesa si rispecchia, all’interno della drammaturgia originale, in un linguaggio semplice, diretto, ma bilingue. Il testo si avvale di idiomi diversi, oscilla continuamente tra l’italiano e lo spagnolo, ma si accompagna anche di terminologie dell’abruzzese e del cocoliche (lo spagnolo italianizzato degli emigranti). Si fa, così, metafora concreta di quegli incontri-scontri culturali, protagonisti di una storia di italiani senza Patria. Fa sorridere, però, che, tra i vari linguaggi utilizzati, nel momento in cui la discussione si fa più tesa, anche se i personaggi si sforzano di spiegarsi in spagnolo, è sempre l’italiano ad avere la meglio. 

Emanuele Paone

I componenti del clan Paone raccontano e vivono tensioni, splendori e miserie. Un espediente narrativo apparentemente semplice – quello di un lavoro come operaio trovato dal nonno per l’unico nipote, Emanuele, il membro più giovane della famiglia – darà vita ad una storia potente, un vortice di incontri, di scontri, di non detti che distruggono e consumano.

Durante tutto lo spettacolo, il pubblico si costruisce un’immagine di Emanuele Paone condizionata unicamente da ciò che i suoi familiari dicono di lui.
Il nonno ripete che Emanuele non vuole lavorare, che Emanuele non risponde al telefono perché non gliene frega niente della famiglia, che Emanuele è un poco di buono.
Emanuele, invece, – raccontano gli zii – accetta il lavoro offertogli dal nonno, ma resta intimorito dinanzi alla fabbrica il suo primo giorno perché è un ragazzo molto sensibile.
Entra, poi, in fabbrica e inizia a lavorare. Lavora anche molto bene, tutti si complimentano con lui ma, si sa come vanno certe cose, alla fine Emanuele non verrà assunto, è italiano – si dicono i suoi genitori.

Quando finalmente entra in scena, vediamo un Emanuele vestito nello stesso e identico modo del bambolotto misterioso che le figure femminili – più il suo papà – stringono e si passano durante tutta la narrazione. Incontriamo un Emanuele diverso e ricordiamo che tra le tante descrizioni, più o meno belle, fatte su di lui, ve ne è anche un’altra: Emanuele, sin da piccino, era un bambino diverso dagli altri.

Il finale inaspettato

Un finale a sorpresa interrompe, infatti, repentinamente la comicità e porta al centro della narrazione un’altra tematica fondamentale, accanto a quella dello sradicamento e della perdita di identità. Si tratta di una riflessione delicata e attenta sulla disabilità e la difficoltà ad accettarla, anzi il rifiuto a riuscirci. Il protagonista ne sarà proprio Emanuele. Così la leggerezza dello spettacolo si rivela nella sua disarmante profondità e il comico lascia pian piano spazio al tragico.

Sentimenti universali

Tra comico e tragico, sorrisi e malinconie, la narrazione tragicomica della “Familia Paone”, pur concentrandosi sulle sue tematiche ben specifiche, parla a tu per tu con ciascuno di noi. Racconta un vuoto che può essere comune a tanti pur senza lasciare la propria terra, non riconoscendosi piuttosto nel posto in cui ci si trova; racconta una ricerca d’identità; racconta di legami persi; racconta di debolezze e fragilità, della loro percezione sociale e di quanto sia complicato rapportarsene; racconta l’uomo e la sua vita. E in questo sta il grande valore artistico dell’opera.

È questo il potere dell’arte, capace di rendere universale il suo contenuto sempre individuale, di farlo arrivare a ciascuno di noi, perché in ogni personaggio, in ogni sua battuta, in ogni sua vicenda, reale o fantasiosa, si trova, come scriveva Benedetto Croce: «tutto l’umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale, che diviene e cresce in perpetuo su se stesso, soffrendo e gioendo».

Testo Stefano Angelucci Marino

Regia e interpretazione Rossella Gesini e Stefano Angelucci Marino

Maschere BRAT Teatro

Scenografia Claudio Mezzelani

Produzione Teatro Stabile d’Abruzzo