Certo che m'arrabbio

Messina Social City e la libertà di dire “grazie” una volta sola

Alcuni giorni fa, a Palazzo Zanca, è successa una cosa inusuale. Se dovessimo usare un termine accorintiano, diremmo che è successa una cosa epocale.

In un colpo solo, 540 lavoratori hanno firmato un contratto a tempo indeterminato. Sono termini che non si usano più, “contratto a tempo indeterminato”, per di più in un Comune del sud ed a Messina in particolare. Per di più un numero così alto.

Dovrebbe essere per tutti motivo di rallegramento, forse il vento sta cambiando.

Ma forse c’è chi preferiva che il vento non arrivasse.

Niente è perfetto, tutto è perfettibile. Social City ha ancora tante pecche, prima fra tutte una long list che non deve diventare una promessa mancata.

E’ stata una rivoluzione di costume. Dopo 30 anni sono andate in soffitta le cooperative. O meglio la degenerazione delle cooperative, la patologia di un sistema nato per migliorare la vita degli utenti e dei lavoratori e diventato altro.

A Messina sia le cooperative (in tutti i settori) che gli Enti di formazione si sono trasformati in bacini clientelari, in sacche di potere gerarchico, feudale quasi, ma unico mezzo per poter lavorare. L’ipocrisia collettiva ha lasciato spazio ad un’aberrazione, quella del vedere che ad ogni coop corrispondeva un “capo politico”. Con il tempo i servizi e le gare si sono decise attraverso una divisione cencelliana. In Consiglio comunale si sapeva quale consigliere c’era dietro ognuna di quelle coop. L’inchiesta Terzo Livello ha svelato un modus operandi ben noto.

Venivano eletti spesso consiglieri “improbabili” che raccoglievano messe di voti non perché competenti ma perché cinghia di trasmissione e sicura strada per vincere le gare. Il sistema coinvolgeva gli uffici di Palazzo Zanca ed anche il mondo sindacale. Nessuno può tirarsi fuori da questo meccanismo. Nessuno è vergine.

Stare dietro la porta del potente di turno per garantire il pane della propria famiglia è un’umiliazione che segna l’anima di una famiglia per sempre, ma quando quella è l’unica aria che respiri non sai come ribellarti. Lavori male, ma sai che quello stipendio, per quanto avaro, in ritardo, precario, dipende da chi comanda.

Non basta dire grazie la prima volta, perché il meccanismo è quello: il precariato si basa sulla certezza che dovrà essere un grazie detto 10, 15, 20 volte.

L’operazione che ha fatto Cateno De Luca, insieme ad alcuni sindacati, è coraggiosa perché, piaccia o no (ed a quanto pare non piace perché lui è antipatico quindi non gli si può attribuire niente di positivo), piaccia o no, lui quelle catene le ha spezzate.

Ha reso 540 famiglie libere dal bisogno, libere di dire grazie una sola volta.

Questo dà fastidio perché mina interessi consolidati. Alcune polemiche e proteste dimostrano come a Messina la sindrome di Stoccolma sia radicata.

Sui 540 lavoratori e sugli altri che mi auguro verranno assunti quanto prima voglio aggiungere una cosa. Stiamo parlando di persone che per 20, 30 anni, hanno svolto lavori al fianco di anziani, malati, hanno svolto mansioni che non sono quelle di stare dietro una scrivania, comodi comodi, in un ufficio caldo.

Stiamo parlando di persone che il diritto ad un lavoro lo hanno conquistato non come figli di, non come raccomandati, ma faticando, ingoiando rospi, umiliazioni. Non stiamo parlando di concorsi per cattedre universitarie o posti in banca. Stiamo parlando di assistenza domiciliare, assistenza agli anziani. Stiamo parlando di FATICA VERA per 10, 15,20, 30 anni.

Il diritto al posto fisso lo hanno acquisito in decenni. L’unica raccomandazione che hanno sono i calli nelle loro mani, l’esperienza accumulata.

Smettiamola con l’ipocrisia di chi fa capire che non ne hanno diritto o che tolgono il posto a qualcuno.

Per 30 anni il loro diritto al lavoro è stato volgarmente barattato con altro.

In un colpo solo 540 persone sono libere e le insinuazioni, i veleni che stanno accompagnando questo percorso sono figlie di un sistema che si oppone alla libertà di dire grazie una volta sola.

Non so quante persone vogliono fare quel lavoro. Non è su di loro che si può consumare uno scontro politico. Lasciateli in pace. Hanno il diritto di non essere più merce di scambio. Da domani saranno libere anche di mandare a quel paese De Luca o gli stessi sindacati che li hanno aiutati perché è questa la diretta conseguenza della libertà. Chi elimina il precariato rende libere le persone dal bisogno.

De Luca non è un eroe, non lo è l’assessore Calafiore, Clara Crocè, la Cisl, il movimento spontaneo lavoratori, Csa, Cisal, l’Isa, e tutti gli altri che hanno sostenuto il percorso. Hanno semplicemente fatto il loro dovere, un atto che si doveva fare prima.

Sono felice per 540 lavoratori e questo non significa che dimentico chi resta indietro. Una gabbia è stata aperta e ne saranno aperte altre.

Impariamo a sorridere per la gioia degli altri, smettiamola con l’invidia del vicino. Io sono felice per queste famiglie.

Perché POTEVA essere mia madre, mia sorella, mia figlia a dover passare la vita a pulire un anziano, a cucinare in un asilo, a sbrigare faccende.

A chi gufa perché tutto salti pur di vedere fallire De Luca non auguro mai che una di queste 540 persone sia sua moglie, sua figlia, suo fratello, suo padre, costretti a dire grazie tante volte con l’amaro in bocca, a vivere 20 anni senza certezze, vedendo che dietro la scrivania ci sta il figlio di uno della stanza dei bottoni, sapendo di dover votare il mediocre incapace di turno non una ma tre, quattro, cinque volte.

Gufate pure, io sono felice lo stesso. Perché quello in ultima fila, lì nel Salone delle Bandiere, con il bicchiere di spumante in mano e una lacrima di gioia potrebbe essere mio padre.

Rosaria Brancato