Sergio Marchionne uomo dell’anno
Come diceva Ennio Flaiano, ancora una volta gli Italiani si sono mostrati pronti a correre in soccorso del vincitore. Lo vediamo in politica (minuscolo) con la sinistra sempre alla ricerca di un Messia da scoprire – ma, sia chiaro, solo dopo che ha vinto, almeno a casa sua -: da Baffone/Stalin a Castro, passando per Mao, fino ai più recenti Clinton, Blair, Zapatero, Lula e Obama.
E con una destra che crede che la proterva difesa degli interessi di pochi “unti dal Signore” sia espressione di liberalismo. Nobile idea politica che il PdL mostra di non conoscere affatto; innamorandosi, di volta in volta, di ricette economiche estreme, thatcheriane, asiatiche, irlandesi e reaganiane. Senza comprendere che quelle ricette non si traducono in estemporanei e incoerenti provvedimenti, ma implicano una meditata, coerente e culturalmente sofferta programmazione pluriennale.
In questo 2011, la parte di guru della destra pare toccare a Sergio Marchionne.
E la scelta ci spaventa.
Non perché il bravo manager di formazione canadese e passaporto svizzero sia “cattivo” – come sostengono gli illusi sostenitori del primato etico della sinistra -, ma perché non possiamo evitare di chiederci cosa accadrebbe se il suo modello di relazioni industriali si estendesse a tutto il Paese.
Che l’Italia non sia in grado di reggere il passo con tanti (troppi) altri i Paesi europei dovrebbe essere ormai evidente a ogni persona dotata di buonsenso.
E sappiamo bene perché, anche se fa comodo ed è politicamente corretto fare finta di non saperlo.
Statuto dei lavoratori, dimensione aziendale, sentenze della Magistratura, burocrazia, livello di tassazione, difesa a oltranza dei diritti acquisiti – che si traduce automaticamente nello scaricare sulle future generazioni l’insostenibilità di vecchi privilegi -, persino la Costituzione stanno lì a rappresentare quei lacci e lacciuoli che impediscono alla società civile e agli imprenditori di competere ad armi pari con la concorrenza in un mercato globalizzato.
Tramontato per sempre il tempo degli aiuti pubblici – che, per altro, non hanno mai realmente favorito la Piccola e Media Industria in salsa veneta, vera spina dorsale del capitalismo nostrano -, scartata, per ovvii motivi, l’uscita dal novero dei Paesi a democrazia più o meno liberale e di mercato, restano poche alternatve. La più comoda è procedere sulla strada del non fare nulla, il che obbliga a fuggire all’estero i migliori cervelli e gli imprenditori più capaci, depauperando sempre più il Bel Paese. Come avviene ormai da parecchi anni.
Se aggiungiamo le carenze infrastrutturali, la bassa qualità dell’istruzione e il peso di un colossale debito pubblico – ostacolo insormontabile a destinare alle riforme le risorse necessarie, ammesso che queste riforme qualcuno, a destra e sinistra le voglia veramente: è troppo comodo per politici e politicanti, per pubblici amministratori e parassiti della politica continuare così -, ci rendiamo conto che il Bel Paese è destinato a un’inarrestabile decadenza.
Che sarà più o meno rapida a seconda che si trovi un sistema efficace per porre un freno alla crescita delle disuguaglianze, tristemente aumentate negli ultimi anni. Un sistema che unisca al desiderio di legalità una maggiore equità sociale ed eviti tensioni e spinte corporative e localistiche, che rischiano di portare intere parti del Paese verso l’indigenza e la ribellione. Soprattutto nel Mezzogiorno.
Il nostro uomo dell’anno è fortemente intenzionato a combattere l’inerzia colpevole dei nostri governanti, orientando i rapporti industriali italiani verso modelli collaudati che funzionano in società fortemente individualiste come quella americana.
Nella convinzione che ciascuno è artefice della propria sorte, motto che pare risalga al I secolo a.C. e, quindi, non è un’invenzione di ottocenteschi “padroni delle ferriere”, antenati del supermanager laureato in Filosofia. Al quale va riconosciuto il grande merito di aver detto forte e chiaro che il mantenimento del sistema attuale rischia di portare l’Italia alla rovina.
Le nostre maggiori perplessità stanno nel fatto che il modello Marchionne si incardina bene su una società come quella americana, flessibile e disponibile a radicali cambiamenti esistenziali. Un modello basato su rapporti di forza che si addice sia alle inquietudini vetero-classiste della sinistra integralista, nostalgica dei grandi scontri dei mitici anni ‘70, che alle visioni muscolari dei falchi di Confindustria, ottusamente vogliosi di spezzare le reni alla FIOM.
Visioni distorte della realtà che, a nostro modesto parere, rischiano di frenare ulteriormente la crescita culturale, prima ancora che socio-economica, del nostro Paese.
Senza voler invadere il campo degli studiosi di Diritto societario e di Economia aziendale, ci chiediamo se sia possibile che l’italica sinistrucola moderata – pronta a scendere in piazza e a salire sui tetti – sia così scalcagnata da non saper formulare una credibile proposta coerente con le radici ideali della sua agonizzante tradizione riformista.
Possiamo chiamarla Mitbestimmung, alla tedesca, governance duale alla maniera anglosassone o anche economia sociale di mercato, come è stata battezzata dalla Scuola di Friburgo e ripresa da un brillante commercialista di Sondrio; ma è semplicemente incredibile che la promozione di un tale avanzato modello di relazioni industriali sia stata scartata da due economisti come Pierluigi Bersani ed Enrico Letta, segretario e vicesegretario del primo partito dell’opposizione.
E lasciata nelle mani della componente illuminata del PdL, che fa capo, appunto, a Giulio Tremonti.
Col risultato che il centrodestra impersona sia le tesi marchionniana della contrapposizione perenne tra capitale e lavoro, sia quella più soft della cogestione, privando l’opposizione di spazi politici che possono attrarre il consenso dell’elettorato moderato.
Malgrado ciò, ci sarà sempre qualcuno che si meraviglierà se il centro-sinistra resta ampiamente minoritario nel Paese.
