“Vento da Sud-Est”, Caos e Carità

Le frasi di Papa Francesco incontrano orecchie sorde: la carità cristiana è lontana, declinata ad uso e consumo della società del benessere. Nel microcosmo di una famiglia da spot televisivo, le certezze si incrinano all’arrivo dei barbari: un sistema di valori è messo in discussione, chi bussa alla porta può intaccare equilibri ormai perbenisticamente consolidati. Aspirazioni, programmi, malattie psicosomatiche, canti, parole, gesti, urla, genuflessioni: un pallone rosso piove dal cielo a chiamare a raccolta il buon senso, unico assente in un contesto famigliare poggiato sul rancore e la sopraffazione. La porta si apre, il taumaturgico invasore si rivela pietra sulla quale fondare una nuova prospettiva esistenziale.

Cortocircuito tra passato e presente, “Vento da Sud-Est” di Angelo Campolo nasce come primo atto del laboratorio teatrale “Progetto Parola Pasolini” nell’ambito delle attività della compagnia Daf – Teatro dell’Esatta Fantasia. Presentato in una gremita Sala Laudamo, il “Teorema 2.0” creato dallo stesso regista con la preziosa collaborazione di Simone Corso è un lavoro che procede per accumulo di sentimenti, emozioni, ironie: la tradizionale famiglia Banks e i migranti “destinati a morire” divisi inizialmente dagli ostacoli del pregiudizio e di uno stantio etnocentrismo di facciata, quindi la riflessione, la catarsi, l’attualità pulsante dal palco, dalla platea, dalle strade di tutto il mondo occidentale. Pasolini resta sullo sfondo, invocato solo inizialmente dai quattro straordinari migranti del centro di accoglienza “Ahmed”: cambiati i tempi, metabolizzati i moti sessantottini, resta la paura dell’“intruso” come forza trascinatrice di un Caos da ricacciare all’interno di labili confini. Gli eccessi retorici sono spenti da un ritmo serrato: una moderna Mary Poppins (Glory Aibgedion) si cala nei panni del “deus ex machina” per riportare la pace in una contesto rinnovato per speranze ed ambizioni. Tra tocchi lynchiani e scorribande in platea, sono i dati snocciolati dai due narratori Antonio Vitarelli e Michele Falica a riportare il pubblico alla dura realtà del presente: le crepe del mondo globalizzato si riflettono in ogni aspetto della quotidianità; la politica, colpevolmente in ritardo, può ormai solo prendere atto delle trasformazioni.

Il laboratorio prende forma. Una volta ristretto il campo a pochi elementi sulla scena, la scrittura è divenuta più solida, la recitazione inevitabilmente più curata. Intelligente Angelo Campolo nell’evitare le consuete debolezze che caratterizzano progetti di questo genere: le parti cantate da Patrizia Ajello appaiono ben inserite nel contesto generale, la tradizionale esplosività corale è frenata opportunamente dalle esigenze narrative, la riflessione calata nell’azione, i più giovani perfettamente in parte (una menzione, a questo proposito, per l’interpretazione di Giuliano Romeo). I cinque migranti, poi, ad impreziosire la scena al di là dei facili moralismi: il pubblico apprezza. Messaggio ricevuto.

Domenico Colosi