Scoglio: "Il Covid 19 è figlio della globalizzazione? Quale futuro per l'Europa?"

Scoglio: “Il Covid 19 è figlio della globalizzazione? Quale futuro per l’Europa?”

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Scoglio: “Il Covid 19 è figlio della globalizzazione? Quale futuro per l’Europa?”

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domenica 19 Aprile 2020 - 09:15

La riflessione del sovrintendente del Vittorio Emanuele sulla necessità di un nuovo modello d'Europa e di una modernizzazione dell'Italia

Di seguito la riflessione di Gianfranco Scoglio, sovrintendente del Teatro Vittorio Emanuele di Messina, sulla pandemia, sul ruolo dell’Europa e sulla possibilità di costruire un nuovo modello di Unione Europea.

Cambiare radicalmente

La pandemia ci costringerà a cambiare radicalmente quasi tutto quello che facciamo: come lavoriamo, facciamo esercizio fisico, socializziamo, facciamo shopping, gestiamo la nostra salute, educhiamo i nostri figli, ci prendiamo cura dei nostri familiari. La maggior parte di noi probabilmente non ha ancora capito, anche se dovrà farlo presto, che le cose non torneranno alla normalità dopo qualche settimana, o addirittura dopo qualche mese. Molte cose non saranno mai più come prima.

La paura peggio del Covid

La paura di non farcela, l’ansia per il futuro e la mancanza di significative politiche economiche per la crescita sono peggio del COVID e costituiscono un pericolo reale per il nostro futuro. La paura per il domani porta alla rassegnazione ed è il nemico più pericoloso per la nostra Nazione perché mette a rischio creatività e capacità facendo prevalere il populismo ed il qualunquismo. Il primo luogo comune espressione della rassegnazione è quello di individuare un nemico al quale addebitare le responsabilità di questa crisi che prima che essere sanitaria è culturale e di costume. Ecco così che I principali avversari sono dai più individuati nella globalizzazione e nell’Europa.

A)La globalizzazione

Sostenere che il COVID così come le future pandemie sono state causate dalla globalizzazione (libera circolazione di persone e merci) è frutto di un’analisi superficiale. Oggi la società è molto più pronta ad affrontare il virus, e lo è tanto di più in quei Paesi “ricchi” e industrializzati dei quali l’Italia tutt’ora fa parte. Abbiamo strumenti diagnostici, terapeutici e piani di intervento che in passato erano semplicemente impensabili, e che consentono di adottare le necessarie misure di prevenzione e mitigazione del rischio. Così come totalmente impensata era la possibilità di condividere pressoché in tempo reale i dati emersi in diversi Paesi e i risultati delle ricerche effettuati in ciascuno di esso. La maggior parte di questi progressi sono riconducibili proprio alla globalizzazione.

L’importanza della globalizzazione

Occorre tenere presente che – senza la globalizzazione e l’integrazione delle economie mondiali, inclusa la Cina – il mondo sarebbe immensamente più povero: dal 1989 a oggi, il Pil pro capite globale (misurato a parità di potere d’acquisto) è aumentato di oltre il 77 per cento mentre la quota delle persone in condizioni di povertà è scesa da più di un terzo a meno di un decimo, nonostante nel frattempo la popolazione sia cresciuta da poco più di 5 miliardi a circa 7,7. La globalizzazione è stata un fattore determinante di questo progresso. A meno che non si pensi all’utopia di una società chiusa. Nella versione più “estrema” della società chiusa (una versione che nessuno dei suoi sostenitori si azzarda a prendere seriamente), non ci sarebbe contagio possibile: semplicemente perché gli individui vivrebbero in società piccole, dove le interazioni sono limitate ai contatti faccia-a-faccia e le relazioni con altre comunità sono impossibili. Se il lodigiano esistesse senza avere cognizione dell’esistenza di Milano, il contagio sarebbe più limitato: ma è evidente che si tratterebbe di una società ancora molto primitiva, dal momento che non potrebbe ricorrere alla divisione del lavoro “al di fuori dei propri confini”, inclusa la città di Milano.

La Cina e il contagio

Il contagio esiste perché esiste la vita associata, perché ci sono grandi conglomerati di esseri umani. La società aperta garantisce che tutti gli strumenti a disposizione – a partire dalla diffusione di informazione corretta e tempestiva – potranno essere sfruttati per combattere il coronavirus. La conferma dell’efficacia di questi mezzi viene dal numero relativamente più basso di casi nei paesi Ocse. Al contrario, come dimostra la progressione del contagio, è stata proprio la gestione dirigista cinese a impedire di contenere l’epidemia: prima ignorando gli allarmi e addirittura punendo chi segnalava l’emergere del problema, poi negandone la gravità, il Governo cinese non solo si è reso protagonista di un intervento tardivo, ma ha anche distrutto la fiducia nella sua capacità di affrontare il problema e nell’affidabilità dei dati forniti. Non è un caso se, probabilmente, la figura simbolo di questa vicenda sarà l’oculista Li Wenliang, tra i primi a comprendere cosa stava accadendo e per questo messo a tacere dal regime (e oggi ucciso proprio dal coronavirus).

B)L’Europa

L’Europa non è esente da colpe.

La sua maggiore responsabilità risiede nel fatto di aver pensato che una classe elitaria, non eletta dal popolo, potesse rivendicare il verbo assoluto della verità senza comprendere il dissenso e dimostrando la propria insensibilità ad ogni richiesta di solidarietà. L’errore è aver concepito l’Europa non come una confederazione di Stati (con regole comuni ma con autonoma sovranità) ma come un nuovo Stato di dimensioni territoriali più vaste mortificando le differenze sostanziali tra popoli con differenti culture e capacità. Il tentativo di uguaglianza formale ha mortificato capacità e merito ed il mancato impegno alla creazione di regole e competenze comuni ha acuito le differenze e dopato il mercato. Ma l’idea di Europa resta l’unica soluzione per la crescita in un mondo globalizzato. E’ scorretto accusare Bruxelles di non aver fatto nulla. È alla sua task force sul coronavirus che dobbiamo, anzitutto, l’allentamento del Patto di stabilità (confermato dall’Ecofin, il summit tra i 27 ministri delle Finanze, del 23 marzo) che vincolava la nostra possibilità di spesa al rispetto dei parametri di Maastricht sul rapporto debito/Pil. Sempre la Commissione Ue ha promesso di chiudere un occhio su eventuali aiuti di Stato alle imprese (severamente proibiti dai Trattati) fino a mezzo miliardo. E’ l’Europa che grazie alle politiche espansive (quantity leasing) ha scongiurato, tramite la B.C.E. il fallimento delle Borse e le banche, degli altri Paesi, dal tracollo finanziario (fortunatamente le nostre sono sane). Ed è ancora l’Europa che ha immesso nel mercato nuova moneta per le imprese. La politica monetaria ha lo scopo di orientare l’offerta di credito e i mercati finanziari verso i più generali obiettivi di politica economica che sono la crescita della produzione, la piena occupazione e un predeterminato livello di inflazione. Essa è parte della politica economica.

Il Quantitative easing (QE), chiamato anche Alleggerimento Quantitativo, è uno strumento non convenzionale di politica monetaria espansiva utilizzato dalle banche centrali. L’alleggerimento quantitativo però se da lato tende ad aumentare in modo controllato l’inflazione e a rivalutare gli asset per chi ne è già in possesso, acuisce inevitabilmente il divario tra ricchi e poveri, se gli Stati membri non compensano questi effetti sociali con una adeguata politica fiscale, per mantenere stabile la redistribuzione e concentrazione della ricchezza. La quantità di moneta presente nel sistema viene regolata tramite le operazioni di mercato aperto, e cioè l’acquisto e la vendita di titoli di stato. Acquistando titoli la Banca Centrale aumenta la moneta presente nel sistema; vendendone, la riduce. Il primo effetto del QE è alzare i prezzi dei titoli acquistati, ridurne il rendimento, e rifornire le banche di liquidità.

L’incapacità di riformare l’Italia

Ma il denaro dalle banche non è passato davvero all’economia reale. Le banche, infatti, hanno deciso di tenere quel denaro in depositi presso la Banca Centrale stessa, depositi a basso o bassissimo rendimento, o addirittura negativo, ma del tutto privi di rischio. Gli effetti della manovra hanno avuto l’effetto di alleggerimento dei debiti sul debito pubblico. Cosa non da poco, certo, ma con risultati inferiori alle attese. La responsabilità dell’attuale drammatico momento economico non è quindi dell’Europa ma della nostra persistente incapacità di riformare il Paese. È bastato un virus per creare il panico mondiale, con tanto di crisi economiche, perdite di punti del PIL, turismo in pericolo, merci e container fermi, fabbriche vuote, personale a spasso. Non abbiamo saputo cogliere il significato della globalizzazione attuando le necessarie riforme per il contenimento della spesa pubblica e la diminuzione del debito pubblico. Abbiamo ritenuto di poter assistere supini all’evoluzione dei tempi pensando, irragionevolmente che tassando sempre più le famiglie avremmo auto le risorse per mantenere uno Stato assistenzialista e clientelare. Niente infrastrutture, niente riforma del sistema scuola – formazione – lavoro, niente riforma fiscale, nessuna politica energetica, nessuna riforma del pubblico impiego. Di digitalizzazione e politiche energetiche neanche a parlarne.

Il cappio ce lo siamo messi da soli

Insomma abbiamo pensato che i nostri problemi li avrebbe risolti il mercato. Nel mondo dove tutto è mercato e le merci devono attraversare continenti in meno di un attimo, ci si è accorti che chi dipende da questo sistema va in tilt in poco tempo. Il cappio ce lo siamo messi al collo da soli. Se la Cina è il supermercato mondiale, quindi anche il nostro, e se per qualche motivo si ferma, cosa succede? Grandissimi problemi. La mercantilizzazione infatti significa la dipendenza totale. Siamo dipendenti dai combustibili fossili, dagli alimenti chimici e dal supermercato cinese che grazie al suo esercito di schiavi ci rifornisce di tutto a prezzi irrisori.

Gigante dai piedi d’argilla

E così la nostra società è un gigante dai piedi di argilla che va in crisi velocemente proprio a causa delle sue dimensioni, della sua rigidità e della sua incapacità di reagire a eventi improvvisi. E’ chiaro che i fautori di quello che erroneamente si considera progresso, della tecnologia lanciata a tutta velocità al solo servizio del profitto, non possono che percorrere la strada della dipendenza perché è quella che garantisce i maggiori profitti. E quindi ci siamo cacciati in questa situazione estremamente pericolosa dove basta un niente per metterci nei guai. Un Paese spaccato in due che ha creduto che fosse sufficiente valorizzare ciò che il Buon Dio ci ha dato: un enorme patrimonio culturale o che i nostri avi ci hanno tramandato: il 75% del patrimonio culturale del mondo. Ma la pandemia ha fatto sciogliere come neve al sole queste nostre certezze. Cosa faremo oggi che si è arrestata la circolazione delle persone e che i nostri servizi turistici non ci garantiscono più il 13% del P.I.L.?

Come faremo ad essere competitivi nel mercato globale con costi elevatissimi di produzione (energia e lavoro) e distribuzione (mancanza di infrastrutture? Quale è oggi la soluzione per non rimanere incastrati in questo gioco perverso? La risposta è semplice. Innanzitutto diventare il meno dipendenti possibile nei due aspetti fondamentali per la sopravvivenza: il cibo e l’energia. Contare il più possibile sulle nostre forze, riscoprire i tanti talenti e risorse che abbiamo, senza doverle fare arrivare da chissà dove. Abbiamo troppo abbandonato la nostra eccezionale creatività e capacità di saper fare, abbiamo importato cibo spazzatura che è un insulto alla nostra tradizione di cibo sublime e cosa ci ha portato tutto questo?

Puntiamo su noi e sull’Europa

Le case piene di merci di scarsissima qualità, poco durevoli e i nostri corpi avvelenati da alimenti che non meritano questo nome. Per non parlare poi dell’inquinamento e delle montagne di rifiuti che sono il fardello immancabile della mercantilizzazione. Occorre riformare il Paese e puntare ad un piano strategico capace di valorizzare agroalimentare ed artigianato di qualità, cancellare la bieca concezione che la concentrazione delle attività in soggetti monopolistici sia l’obiettivo da perseguire per la competizione dei mercati. Puntare sulla qualità e sulla modernizzazione del Paese. Smetterla con una serie preordinata di negazioni e semplificare il sistema normativo e burocratico che impedisce lo sviluppo. Puntare sulle infrastrutture e sulle politiche di rete guardando al Mediterraneo come una risorsa e non come un fastidio da evitare. Ma soprattutto confrontarci su un nuovo modello di Europa.

Nuova classe dirigente

L’Europa è l’unica che nell’immediato può porre in essere politiche monetarie espansive. Ma se a tali politiche monetarie non precede un cambiamento sostanziale del sistema Paese non abbiamo speranza. Occorre inoltre formare una nuova classe dirigente che sia capace di condividere obiettivi comuni e ripensare il modello politico dell’Europa. Il problema non è la scelta del modello economico (MES, Eurobond o Coronabond) ma l’idea di Europa e la nostra capacità di richiedere nuove regole politiche. L’unica via di salvezza per il nostro Paese e per l’Europa è ripensarsi come area protetta e sovrana rispetto all’esterno; coesa e unitaria sulla difesa militare, la sicurezza internazionale, la politica estera, i flussi migratori, il commercio mondiale e la concorrenza globale e al suo interno invece confederale, riconoscendo la sovranità territoriale e nazionale degli stati. In una parola come ipotizzò Winston Churchill In un discorso spedito il 9 settembre 1946 all’università di Zurigo, occorre un’Unione di Stati d’Europa.

Gianfranco Scoglio

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