Lo stabilisce la Cassazione che conferma la sentenza della Corte d'appello di Messina.
Roma – Si rischiano fino a 10 anni di carcere a spiare le conversazioni WhatsApp del coniuge. Lo ribadisce la Corte di Cassazione decidendo la causa di un messinese, condannato dalla Corte d’appello di Messina per aver prodotto in giudizio messaggi WhatsApp dal telefono in uso alla moglie.
A darne notizia è Il Messaggero, ripreso dall’Ansa, che spiega come per la Suprema Corte accedere senza autorizzazione al telefono dell’ex coniuge, anche per raccogliere prove da usare in una causa di separazione, costituisce accesso abusivo a sistema informatico.
La vicenda a Messina
L’uomo aveva estratto i dati da due cellulari – uno dei quali ancora in uso alla donna, l’altro utilizzato per lavoro e fuori uso da tempo – e li aveva consegnati al proprio avvocato per usarli nella causa di separazione. Le denunce risalgono a marzo 2022 e marzo 20230 quando la moglie segnalò condotte moleste e ossessive da parte dell’uomo, accusandolo anche di aver inviato messaggi privati a terzi per insinuare l’esistenza di una relazione con un collega.
Secondo la Cassazione, i messaggi e le chiamate contenuti nei dispositivi sono tutelati come parte della sfera privata e riservata della persona. Anche le applicazioni come WhatsApp, precisano i giudici, devono essere considerate a tutti gli effetti sistemi informatici, in quanto software che elaborano e trasmettono dati attraverso reti digitali.
La sentenza
Per la Cassazione non c’è dubbio che l’uomo abbia “arbitrariamente invaso la sfera di riservatezza della moglie attraverso l’intrusione in un sistema applicativo” che dovrebbe essere riservato al solo proprietario del mezzo, se non con il suo consenso a farvi accedere altre persone. Il consenso temporaneo all’uso del telefono non elimina la responsabilità penale se viene superato il limite fissato dal proprietario del dispositivo. In altri termini, anche se una persona concede l’accesso al proprio telefono per un breve periodo o per uno scopo specifico, chi mantiene l’accesso o consulta dati non autorizzati commette comunque un reato.
I precedenti
L’orientamento della Suprema Corte non è nuovo e si pone in continuità con precedenti pronunce simili che riguardano compagni o coniugi che si appropriano di dati dal telefono del possessore senza avere esplicita autorizzazione. A gennaio scorso la Cassazione aveva confermato la condanna di un marito che aveva spiato il telefono della moglie anche se in possesso della password: avrebbe dovuto chiedere nuovamente secondo ed esplicito consenso a leggere chat e altri dati, ha spiegato la Corte. In precedenza un uomo era stato condannato per rapina impropria per aver strappato il cellulare dalle mani della moglie.
