Daniela De Prato: «Non penso alla notorietà. L’unica cosa che mi interessa è scrivere ed essere letta»

Daniela De Prato: «Non penso alla notorietà. L’unica cosa che mi interessa è scrivere ed essere letta»

Daniela De Prato: «Non penso alla notorietà. L’unica cosa che mi interessa è scrivere ed essere letta»

lunedì 28 Giugno 2010 - 15:32

Tea edizioni pubblica il romanzo d’esordio della scrittrice friulana

Dopo aver raccolto diversi riconoscimenti per i suoi racconti brevi – genere che il pubblico italiano guarda sempre con diffidenza, anche per la carenza di riviste settoriali – Daniela De Prato pubblica il suo primo romanzo, Il sole negli occhi (Tea edizioni; pp. 160; €10), interamente basato su un rapporto dialettico fra Ariele, scrittrice di successo imprigionata dalla scrittura stessa, e Viola, sua figlia, scomparsa improvvisamente senza lasciare traccia di sé. «Non scrivo di getto, anzi, e fin da subito sapevo quale era l’ambiguità del rapporto madre-figlia su cui puntare, lasciando il Lettore in sospeso sino all’ultima pagina». Scrittura rapida ma profonda, la De Prato non è al primo romanzo in assoluto («questo è il primo che è stato pubblicato») e nella sua prosa si nota uno sviluppo della trama di ampio respiro: «Il passaggio dai racconti al romanzo è stato naturale, del resto la scrittura, così come la calligrafia e il linguaggio, muta di continuo. Ma non è un passaggio irreversibile, continuo a scrivere racconti». Friulana con tracce di Sicilia, la De Prato afferma: «Se l’avessi ambientato al Sud sarebbero stati diversi il linguaggio, le metafore, le immagini. Tutti cambiamenti legati alla forma piuttosto che ai contenuti, del resto questo libro ha una forte componente simbolica, che analizza passaggi interiori che sono simili ad ogni latitudine».

Dopo numerosi racconti sei approdata al mondo del romanzo, un passaggio naturale nell’evolversi della tua scrittura?

«Questo non è il primo romanzo che scrivo ma è il primo che viene pubblicato. Questo passaggio è stato naturale, la mia scrittura è maturata e mi ha condotto sino al romanzo: i racconti mi stavano stretti insomma».

Se il racconto può anche essere il frutto di una geniale intuizione, il romanzo comporta passaggi e costruzioni diverse?

«Si parte sempre da un’intuizione che può evolversi in un racconto fulminante o in una storia maggiormente strutturata. La scrittura cambia di continuo, così come col tempo mutano la calligrafia e il proprio linguaggio. Ciò detto non significa che sia un passaggio irreversibile, difatti continuo a scrivere racconti ancora oggi».

Il romanzo si sviluppa sul dialogo fra Ariele e Viola. E’ stato difficile creare questo intenso rapporto dialettico?

«Non è stato difficile nonostante io stessa non sia madre. Io non sono Ariele o meglio non mi identifico in lei, non sono una scrittrice cinquantenne di successo… Certamente rendere questo dialogo forte e ricco di emozioni era l’obiettivo principale, magari se fossi stata madre l’avrei scritto in modo diverso, chissà. Viola ha un significato ben preciso e il rapporto con la madre è ambiguo, conducendo il Lettore verso false convinzioni, lasciando un’ombra di sospetto del rapporto che lega la madre alla figlia scomparsa. Sapevo sin dall’inizio come si sarebbe sviluppata la storia e quale era l’equivoco attorno al quale costruire questo monologo interiore, questo viaggio introspettivo della voce narrante. Non scrivo di getto, anzi, ma nella fase di editing siamo stati molto attenti a limare la mia scrittura per tenere la suspense sino alla fine, sino all’ultima pagina».

Ad Ariele fin da subito fai dire che la scrittura le ha cambiato la vita ma l’ha anche resa schiava. Tu che rapporto avresti con un’eventuale esplosione di notorietà?

«Notorietà? Onestamente non ci penso. Forse non mi interessa. Il mio desiderio è quello di scrivere e di essere letta. L’unica notorietà che mi interessa è legata alle cose che scrivo, non alla mia persona. Per me questa fase delle interviste è assolutamente nuova, un po’ surreale perché io ho già scritto ma ovviamente mi fa piacere, ci mancherebbe altro».

Parlando della gente friulana, la tua gente, la definisci gente che si dà da fare, schiva e senza fronzoli. I tuoi concittadini vi si sono ritrovati?

«Credo proprio di sì. Abbiamo fatto una presentazione ad Udine e ho visto la gente sorridere mentre questo brano veniva letto da un’attrice. E’ una descrizione critica ma bonaria che evidenzia soprattutto il limite della chiusura che molti vivono con sofferenza. Era un modo per sdrammatizzare e provare a cambiare, del resto io stessa ne soffro perché mi sento molto più espansiva dei miei concittadini. Eppure quando vengo al Sud mi sento molto nordica…».

Visto che hai un legame con il Sud, vorrei chiudere con la domanda del “se fosse”. E se questa storia fosse stata ambientata al Sud, sarebbe stata diversa, soprattutto in relazione all’incomunicabilità di alcuni personaggi?

«Di certo sarebbe stato differente il linguaggio che utilizza Ariele nel suo monologo, le metafore, le immagini e anche qualche reazione di diversi co-protagonisti. Sarebbero stati tutti cambiamenti legati alla forma piuttosto che ai contenuti, del resto questo libro ha una forte componente simbolica, che analizza passaggi interiori che sono simili ad ogni latitudine».

Daniela De Prato è nata a Udine dove lavora in ambito museale e collabora alla realizzazione di video-documentari con l’Associazione Officine Visive di Tolmezzo. Scrive sul periodico del Comitato Tina Modotti «Perimmagine». Con alcuni racconti brevi ha vinto il premio «Leggimontagna» e il «Maddaloni – Città degli Angeli».

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