L’autore romano intervistato alla vigilia della LXIIa edizione del Premio Strega
“Non sapevo che mio nonno fosse un gerarca fascista fucilato a Dongo e appeso a testa in giù a piazzale Loreto, fino a quando non mi sono imbattuto in una fotografia sul libro di storia della seconda media”. E’ questo il bell’incipit de Accanto alla tigre, il romanzo di Lorenzo Pavolini, edito da Fandango (pp. 235; €16.50) e finalista al Premio Strega 2010 e a riguardo l’autore afferma: «vivo la vigilia in modo rilassato, da outsider, sono davvero soddisfatto di far parte della cinquina finale». L’autore, allora dodicenne, scoprì in questo modo chi era davvero quel nonno aviatore, «intellettuale di prim’ordine», tentando di capire cosa lo portò a «cavalcare con tanta ostinazione la sua tigre». Un romanzo fatto di inquietudine e domande che scava nel nostro passato e si intreccia fatalmente col nostro presente, dove si inneggia ancora all’eroe Pavolini e le sue frasi sono diventate gli emblemi della nuova destra.
Lei apre il libro con una bella citazione di E. M. Forster, tratta da “Passaggio in India”, dove si evince che ha scritto questo libro innanzitutto per rispondere ad una propria esigenza. Eppure “Accanto alla tigre” ha riscosso grande successo, tanto da diventare finalista Strega.
«Un libro nato da esigenze personali può incontrare quelle collettive, risvegliando domande e curiosità sopite nei lettori, magari rimaste sepolte nei libri di storia. A mio avviso è proprio l’incrocio fra l’elemento biografico personale e quello collettivo la chiave del successo che sta riscuotendo il mio libro».
Domani si saprà il nome del vincitore. Come vive questa vigilia?
«In maniera rilassata perché non sono uno dei favoriti. Ho sentito la tensione emotiva per l’ingresso nella cinquina finale che rappresenta certamente una gran bella vetrina per il mio libro che viene valutato da grandi lettori quali sono gli Amici dalla Domenica per cui sono già soddisfatto, non ho nulla da perdere. Domani andrò a guardare la “lotta dei grandi”, un po’ da outsider, senza dubbio la posizione migliore».
Suo nonno non solo fu un fine intellettuale ma ebbe anche una vita talmente densa di eventi che oggi difficilmente sarebbe replicabile. Aderì volontariamente al fascismo ma secondo lei, perché lo fece?
«La spiegazione va cercata nel contesto storico in cui avvenne l’adesione, non solo di mio nonno, ma di moltissimi giovani. Ma Pavolini fu una figura emblematica perché fu uno di quelli che elaborò la cultura fascista. Nel contesto storico del primo dopoguerra, quell’adesione è motivata dalla ricerca di un’alternativa italiana al socialismo e negli scritti di numerosi giovani di quel tempo si evince chiaramente una profonda insofferenza verso l’immobilità della storia che in quel periodo era davvero molto forte».
Vivere a Roma, trovarsi in Via delle Tre Madonne o in quello lei chiama “il triangolo delle Bermude” (casa Pound – via san martino ai monti – via botta) per lei è difficile o l’aiuta a riconciliarsi con la storia del fascismo?
«Roma, secondo tradizione, ospita diverse stratificazioni architettoniche che l’hanno segnata nel tempo. Certamente l’architettura del Ventennio è molto presente ancora oggi, coi suoi simboli e le sue scritte, seppur rimosse. Il fatto che il neo-fascismo riutilizzi quegli stessi simboli e quei motti mi hanno portato non solo a reagire ma soprattutto a volerli comprendere davvero. Cosa significa oggi scrivere su un muro “PAVOLINI EROE”, cosa significa giocare da bambini sotto l’obelisco, a pochi metri dall’Olimpico, dove c’è “Dux Mussolini”? Tutto ciò, a mio avviso, vuol dire sia che quella cultura passata è ormai integrata ma, allo stesso tempo, che quegli stessi simboli possono astrarsi ed essere riutilizzati, come un Pantheon post-moderno oggi».
Lei spesso sottolinea come oggi la destra estrema abbia uno sfogo naturale a Roma, da Casa Pound alle curve calcistiche. E’ un pericolo reale?
«Il pericolo esiste quando le pulsioni più arcaiche e rozze finiscono per prevalere. Roma per tradizione ha sempre mantenuto un legame con un certo tipo di cultura di estrema destra. In effetti sembrerebbe che in questi ultimi anni sia aumentato il fascino che questa cultura riesce ad esercitare sui giovani liceali, un tempo maggiormente attratti dagli ambienti della sinistra. In ultima analisi credo che ci sia stato un travaso di un certo tipo di fascinazione politica dalla sinistra, molto forte durante gli anni ’90, alla destra e tale fenomeno è evidenziato anche dalla nascita di centri sociali e di aggregazione ma ciò non ha necessariamente una connotazione negativa in senso assoluto».
Mi piace molto il fatto che lei ribadisca la necessità di studiare la nostra storia e di contestualizzare i fatti per poterli comprendere.
«Scrivendo questo libro mi sono reso conto che nel Novecento, nel nostro passato, ci si può trovare a proprio agio solo se ci si muove con attenzione perché vi si trovano le ragioni e i contesti storici che condussero a certe azioni, drammatiche o meno. Solo studiando la storia, a mio avviso, si ha la possibilità di non essere manichei».
Dopo aver scritto questo libro ha chiuso il cerchio attorno alla figura di suo nonno, ha concluso il suo percorso della memoria?
«Non credo di aver chiuso un cerchio, piuttosto credo che attraverso la figura di mio nonno sono riuscito a relazionarmi con il mondo. Dopo l’uscita del libro molte persone mi hanno cercato per raccontarmi le loro storie che hanno a che fare con il Ventennio con un paese che ha difficoltà a confrontarsi con un certo tipo di memoria. Il libro continua a stabilire una relazione molto forte con il mondo, non è escluso che in futuro deciderò di scrivere nuovi capitoli».
Lorenzo Pavolini è nato a Roma nel 1964. Redattore della rivista Nuovi Argomenti, ha pubblicato i romanzi “Senza rivoluzione” (Giunti 1997 – Premio Grinzane Cavour esordiente) ed “Essere pronto” (PeQuod, 2005). Alcuni suoi racconti sono apparsi su giornali, siti, riviste e antologie. Ha curato e tradotto diversi volumi tra cui: “Italville – New Italian Writing” (Exile Edition, 2005), antologia di giovani autori italiani tradotti in inglese, e l’edizione integrale de “Le interviste impossibili” (Donzelli, 2006), raccolta degli ottantadue testi dell’omonimo programma radiofonico, trasmesso su Radio Rai dal 1974 al 1975.
