La Solitudine del padre

La Solitudine del padre

Giuseppina Borghese

La Solitudine del padre

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sabato 28 Febbraio 2015 - 10:26

Prosegue con successo il laboratorio teatrale "Nel Paese dei Balocchi" legato al Pinocchio collodiano: "Solitudine" di Annibale Pavone convince e commuove con un intenso ritratto generazionale.

Una notte feci un sogno. C’era mio padre tornato in vita che mi portava in giro sulle spalle. Io ero piccolo, un bambino di cinque o sei anni. « Salta su », mi diceva, e prendendomi per le mani mi faceva volteggiare sopra le sue spalle. Stavo lì bello alto, ma non avevo paura. Lui mi reggeva forte. Ci reggevamo forte l’uno con l’altro. Poi lui si incamminava lungo il marciapiede, allora io lasciavo la presa sulle spalle e gli mettevo le mani attorno alla fronte. «Non mi spettinare » diceva, « ti tengo io. Non caschi mica.» Appena mi diceva così io mi rendevo conto che mi teneva forte con le mani attorno alle caviglie. E allora lasciavo la presa. Mi scioglievo e allungavo le braccia in fuori, restando così per tenermi in equilibrio. Mio padre continuava a camminare mentre io cavalcavo sulle sue spalle. Facevo finta che lui fosse un elefante. *”

Il secondo appuntamento con il laboratorio teatrale “Nel Paese dei Balocchi”,Solitudine” per la regia di Annibale Pavone ha il respiro di una delle pagine più belle di Raymond Carver, “Elefante”, lirica apologia della nobile solitudine a cui è destinato ogni padre.

Infatti, la cavità oscura, ributtante e profondissima che è il ventre della balena, non è solo il vuoto in cui Pinocchio si ritrova, pellegrino ignaro della propria destinazione, ma è anche il racconto di una immensa, incompresa solitudine, quella del padre. Un isolamento emotivo che porta il peso delle responsabilità, delle parole che è preferibile risparmiarsi e di una comprensione comunque incondizionata. Ad illustrare questo percorso è, ancora una volta, la recitazione corale di un blocco umano di grande impatto visivo che traduce vitalità e sofferenza in fisicità del sentimento: lo smarrimento, la paura si fanno calci, gambe che corrono, gole che strillano, occhi che si sgranano. Un blocco umano che si protende spesso verso il pubblico, creando continue occasioni di contatto tra platea e attori con alchimie inaspettate. Sulle note di “Father and Son” di Cat Stevens la scena si arresta e i protagonisti si fermano a guardare il pubblico. I ruoli si capovolgono e lo spettatore, colto quasi di sorpresa nell’intimità del proprio turbamento, si ritrova oggetto di sguardo senza poter fuggire, resta lì inerme e quasi imbarazzato.

Lo spettacolo si propone al pubblico – numeroso e complice – in tutta la sua chiassosa varietà, compiendo in pieno quello che è il senso più alto del progetto “Laudamo in città”: rendere il Teatro materia viva e dinamica, una creatura indipendente che cresca e si muova tra le strade della città, nelle voci diverse dei suoi ragazzi.

Giuseppina Borghese

* citazione tratta da “Elefante” di Raymond Carver, edizione Meridiani Mondadori, 2005, traduzione di Riccardo Duranti, pag. 943

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