«Gaber oggi ci manca ferocemente»

«Gaber oggi ci manca ferocemente»

«Gaber oggi ci manca ferocemente»

mercoledì 04 Maggio 2011 - 22:29

Il celebre fotografo Guido Harari ricorda l’amico Giorgio Gaber con due libri imperdibili e complementari

Esce oggi in libreria Quando parla Gaber – Pensieri e provocazioni per l’Italia d’oggi, pubblicato da Chiarelettere. Il suo curatore, il fotografo e critico musicale, Guido Harari ne parla a Tempostretto.it.

Quando parla Gaber è un volume ricco di spunti e riflessioni sempre attuali che spaziano su diversi temi, dal sesso alla coppia, dall’omologazione culturale all’impegno politico: «Gaber – afferma Harari – rompeva ogni schema, ribaltava ogni certezza, poneva quesiti scomodi, sollevava dubbi feroci. L’accusa di qualunquismo, mossagli soprattutto dalla sinistra, era il segno di quella miopia che tutt’ora affligge la società italiana». Questo secondo volume, concentrato esclusivamente sul peso delle parole del Signor G., giunge dopo il successo riscontrato dal ricco volume fotografico Gaber. L’illogica utopia (pp. 320; €59), realizzato grazie ad una stretta collaborazione con la Fondazione Giorgio Gaber.

Al Salone del Libro di Torino, venerdì 13 (Sala Gialla, h21) verranno presentati entrambi i volumi nell’ambito dell’incontro Gaber. L’illogica utopia. Pensieri e provocazioni per l’Italia di oggi. Interverranno Guido Harari, Paolo Dal Bon, Cesare Vaciago, Giorgio Gallione, Luca Telese, con delle letture di Marzio Rossi.

”Gaber. L’illogica Utopia”. Un titolo significativo: perché lo ha scelto?

«Ho voluto parafrasare il titolo di una bellissima canzone di Gaber e Sandro Luporini, L’illogica allegria. Il concetto di utopia era assolutamente centrale nella loro opera: esso rappresentava lo slancio vitale, la tensione morale, che sono, che devono essere, nel Dna stesso dell’uomo; l’unica vera garanzia di futuro di cui dispone. Quindi logicissima e cruciale utopia, ma purtroppo anche totalmente illogica nella deriva civile e democratica che ci soffoca». Un altro volume ricchissimo di foto e documenti che giunge dopo quelli su Fabrizio De André, Fernanda Pivano e Mia Martini. Com’è nata l’idea di celebrare Gaber e come si è mosso per reperire tanto materiale inedito?

«Viviamo un vuoto civile che Gaber, insieme a Pasolini e a pochi altri illuminati, aveva anticipato. Questo silenzio morale andava infranto. Di qui la “missione”, per me, di ridare la parola a Gaber. Ho creato così un percorso parallelo rispetto alla sua opera, andando a ricucire una specie di “autobiografia” ricavata da cinquant’anni di interviste, di registrazioni radiofoniche e di incontri col pubblico in teatro, di appunti e altro ancora. Come già nella Goccia di splendore, il libro dedicato a De André, non mi sono sostituito né sovrapposto alla viva voce dell’artista, ma ho inteso “fotografare” la dinamica, inquieta e eternamente in progress del suo pensiero. In questo sono stato aiutato oltre ogni immaginazione dal copioso archivio della Fondazione Giorgio Gaber, e da Dalia Gaberscik e Paolo Dal Bon, che ne sono il motore, a cui vanno la mia gratitudine e il mio affetto per la fiducia dimostrata e per il prezioso lavoro di editing condiviso assieme».

È interessante notare come Gaber oggi, non solo non ha perso importanza, anzi, continua ad essere un mito, un punto di riferimento della società civile. Ma qual è la sua forza, la sua unicità a suo avviso?

«La forza di Gaber, e anche di Sandro Luporini, che per oltre trent’anni è stato quasi un fratello siamese per lui, firmando insieme a lui tutti gli spettacoli del Teatro Canzone e un’infinità di canzoni, è stata la sua preveggenza. Da un artista non ci si aspetta che colga la realtà in movimento, ma che la anticipi. Gaber rompeva ogni schema, ribaltava ogni certezza, poneva quesiti scomodi, sollevava dubbi feroci. L’accusa di qualunquismo, mossagli soprattutto dalla sinistra, era il segno di quella miopia che tutt’ora affligge la società italiana. Col senno di poi, leggendo oggi i suoi testi di venti o trent’anni fa e guardando in faccia la realtà in cui viviamo, non si può non rendersi conto della patetica afasia della politica italiana».

Al Salone di Torino, insieme a Paolo Dal Bon, Giorgio Gallione, Cesare Vaciago, Luca Telese e Marzio Rossi, presenterà, oltre a L’illogica utopia, anche il nuovissimo Quando parla Gaber, un volume radicalmente diverso dal precedente, incentrato più propriamente sull’aspetto civile del pensiero del Signor G. Di cosa si tratta?

«Sì, non ci sono biografismo qui né canzonette. Il sottotitolo del libro è “Pensieri e provocazioni per l’Italia di oggi”. Un libro da usare come bisturi, per incidere la realtà quando, come scriveva Pasolini, “il fiume della storia ristagna”. Gaber si dichiarava “filosofo ignorante”: masticava Adorno e Marcuse, ma aveva il dono di rendere istantaneamente accessibile a chiunque un preciso progetto di coscienza civile e di etica nuova. In questa messe di brevi frammenti di testo in forma quasi aforistica, Gaber ci parla della politica, dello Stato, del Sessantotto e della sua “razza”, della libertà, dell’utopia rivoluzionaria, della cultura, della televisione, della famiglia, della coppia, della fede, della solidarietà, del declino della coscienza, della nevrosi infantile dell’umanità, della sconfitta del pensiero, della dittatura del mercato e degli oggetti, dell’omologazione culturale di pasoliniana memoria, della stupidità dilagante, fino al bilancio amaro della sua “generazione che ha perso”. Ma tocca sempre e solo a noi, ci dice Gaber, allontanare i fantasmi di un futuro senza rimedio, di un futuro senza Italia».

Infine vorrei chiudere con un suo personale ricordo che la lega a Giorgio Gaber…

«Gaber fa parte del mio Dna, fin da quando, ancora piccolo, lo vidi per la prima volta in tv. Erano gli anni Sessanta e nei suoi successi, fatti di ironia e melodie orecchiabili, già si insinuavano la coscienza civile e l’inderogabile “impegno” del futuro Teatro Canzone. Lo conobbi tardi, nei primi anni Ottanta, quando rilanciò lo storico duo con Enzo Jannacci. Poi seguirono diverse lunghe interviste e molte fotografie, in scena e fuori. Colpivano la sua infaticabile capacità di analisi, la sua curiosità per il punto di vista dell’altro, il desiderio di rompere ogni schema, di spostare il prossimo dai vicoli ciechi dell’ovvietà dogmatica. Sulla scena poi era un artista totale, che usava non solo la voce, ma ogni nervo, ogni muscolo, per raggiungere, coinvolgere e scuotere anche l’ultimo spettatore in fondo alla sala. Come lui, ne nasce uno solo al secolo, se va bene. Inutile dire che la sua mancanza si fa sentire sempre più ferocemente».

Guido Harari Nato al Cairo d’Egitto, nei primi anni Settanta avvia la duplice professione di fotografo e di critico musicale, contribuendo a porre le basi di un lavoro specialistico sino ad allora senza precedenti in Italia. Ha firmato copertine di dischi per Claudio Baglioni, Angelo Branduardi, Kate Bush, Vinicio Capossela, Paolo Conte, David Crosby, Pino Daniele, Bob Dylan, Ivano Fossati, BB King, Ute Lemper, Ligabue, Gianna Nannini, Michael Nyman, Luciano Pavarotti, PFM, Lou Reed, Vasco Rossi, Simple Minds e Frank Zappa, fotografato in chiave semiseria per una storica copertina de L’Uomo Vogue.

È stato per vent’anni uno dei fotografi personali di Fabrizio De André. Ha al suo attivo numerose mostre e libri illustrati tra cui Fabrizio De André. E poi, il futuro (Mondadori, 2001), Strange Angels (2003), The Beat Goes On (con Fernanda Pivano, Mondadori, 2004), Vasco! (Edel, 2006), Wall Of Sound (2007) e Fabrizio De André. Una goccia di splendore (Rizzoli, 2007). Da tempo il suo raggio d’azione abbraccia anche l’immagine pubblicitaria e istituzionale, il reportage a sfondo sociale e il ritratto di moda.

Sul web: www.guidoharari.com

http://www.chiarelettere.it/libro/fuori-collana/gaber-lillogica- utopia.php

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