Il talento portoghese Valter Hugo Mae affronta le contraddizioni del mondo odierno, tanto lavorative che affettive
«Questo libro è uno tsunami, non nel senso distruttivo, ma per la sua forza. È stata la prima parola che mi è venuta in mente quando l’ho letto. Questo romanzo è una rivoluzione. Deve essere letto assolutamente perché si porta dietro una tale novità che dà nuovo fertilizzante alla letteratura». Così, il premio Nobel Josè Saramago, ha sottolineato i meriti della prosa del giovane compatriota Valter Hugo Mae, autore de L’Apocalisse dei lavoratori (Cavallo di ferro; pp. 176; € 15) con il quale si presenta per la prima volta al pubblico italiano. Un libro che affronta temi scottanti come il bisogno di potersi dire “felici” e gli stravolgimenti che, tramite un mercato del lavoro sempre più mercificato, si abbattono sulla nostra vita, sulle nostre relazioni: Il problema è che gli obiettivi sono sempre più confusi e sappiamo sempre meno di cosa abbiamo bisogno.
Lei è uno dei più importanti autori portoghesi. Che significato assume la vittoria del Premio José Saramago?
«Considero molto generoso, da parte di Saramago, dare il suo nome a un premio che vuole scoprire le migliori voci della letteratura portoghese. Mi sono sentito, e mi sento tutt’ora molto grato per questo. Il riconoscimento di questo premi muta molto la vita e il percorso di chi l’ha vinto. Tutto ciò, mescolato a una grande felicità, è stato quello che ho provato quando ho saputo di essere stato scelto».
Com’è nato L’Apocalisse dei Lavoratori?
«Questo libro appare nel momento in cui decido di scrivere sull’emigrazione dei lavoratori per questioni di sopravvivenza. In Portogallo non eravamo abituati a ricevere lavoratori, siamo stati sempre un paese molto povero che ha visto partire i suoi cittadini alla ricerca di nuove opportunità per sopravvivere. Negli ultimi dieci anni siamo diventati anche un paese che accoglie, soprattutto mano d’opera dall’est e dobbiamo imparare a gestire le differenze culturali e a rispettare lo spazio, spesso così angusto, di chi arriva chiedendo impiego e aiuto. Poi il libro si è trasformato nel romanzo degli affetti difficili, ma il punto di partenza è stato quello di mettere in evidenza l’emigrante come individuo ossessionato dalla sopravvivenza.
La figura principale del suo libro è Maria de Graça. Come la descriverebbe in breve?
«Una donna che non fugge davanti a nulla, stando a quello che dice lei stessa, ma che ha dovuto imparare che, a volte, il predatore è dentro di noi, siamo i nostri veri e propri nemici quando lottiamo contro i sentimenti che ci portano a correre dei rischi, anche quello di essere felici».
Il rapporto di Maria con il suo datore di lavoro, il signor Ferreira, sembra richiamare la sindrome di Stoccolma ma a ben vedere è un rapporto ben più complesso…
«Non nella linearità assoluta della personalità, poiché non credo nella linearità di nessuno, né di nessun personaggio. Siamo fatti di contraddizioni e, ancora di più, di scoperte che cambiano le nostre convinzioni, anche le più arroccate. Per questa ragione, che considero salutare, i miei personaggi soffrono sempre di una certa instabilità. Alla base c’è una convinzione: il cambiamento, anche quando è sbagliato, può promettere una maggior felicità. L’aspettativa fa sì che valga sempre la pena correre il rischio. Credo che essere vivi sia già una grande avventura e rischiare è fondamentale».
Mae, con un’ironia pungente lei narra il bisogno di trovare il proprio posto nel mondo, la necessità di potersi dire “felici”. E’ questa l’ossessione dei giorni nostri?
«Sì, ma visto in una dimensione utopica, perché dire che vogliamo essere felici sembra una dichiarazione ingenua. La felicità, dovrebbe essere un obiettivo ragionevole, qualcosa che può realmente diventare vera. Il problema è che gli obiettivi sono sempre più confusi ed è sempre più difficile capire di cosa abbiamo bisogno».
Il mercato del lavoro va incontro ad una flessibilità sempre più esasperata. Oggi possiamo dirci tutti precari, per un verso o per un altro. Anche questa è l’apocalisse dei lavoratori?
«Sì. La precarietà e il lavoro come servizio destituito dal merito o percorso che rende degno l’essere umano. È terribile pensare che il lavoratore non è retribuito per il merito della sua fedeltà o impegno, ma solo per la pragmatica disponibilità, per un tempo sempre più corto che vada bene ai padroni. In questo modo il lavoratore sarà sempre più mantenuto in un circuito impersonale di relazioni, sarà strumentalizzato, e sempre più lontano dalla possibilità di creare legami e di essere visto come un essere umano. È solo un pezzo di un ingranaggio austero, per nulla affettivo. Il lavoro dovrebbe essere una strada verso la dignità, dovrebbe portare un miglioramento nella qualità della vita del lavoratore e dunque dovrebbe anche conferirgli un ritorno sempre più adeguato alla sua realizzazione in quanto professionista e individuo».
