Antidoti all'Aktivismus da Coronavirus: "La Melagrana"

Antidoti all’Aktivismus da Coronavirus: “La Melagrana”

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Antidoti all’Aktivismus da Coronavirus: “La Melagrana”

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lunedì 06 Aprile 2020 - 08:48

Articolo di Gabriele Blundo Canto, con chine di Dora Casuscelli e foto di Enrico Blundo

Azione e meditazione nella tradizione europea. Di Gabriele Blundo Canto, con le chine di Dora Casuscelli

I filosofi negli anni Venti.

Uno dei problemi più frequentemente affrontato negli anni Venti del Novecento dai filosofi interessati alla dimensione sociale era quello di definire il senso della cosiddetta azione storica, cioè rispondere alla domanda su cosa si potesse dovesse o volesse fare nel confronto con le circostanze che caratterizzavano il vivere dell’uomo nella dimensione spazio/tempo. “Io sono io e le mie circostanze” affermava Ortega y Gasset. Analoga discussione si svolgeva nella Germania della fragile Repubblica di Weimar, sorta dopo la Prima Guerra Mondiale tra le rovine dell’impero guglielmino.

In quei tempi, per la maggior parte dei Paesi Occidentali e per alcuni in particolare, le circostanze si chiamavano conta dei morti, distruzione, debiti, crisi, realtà che generavano un’atmosfera di tensione cui si reagiva con risentimento, conflittualità sociale e politica, ricerca di capri espiatori, razzismo e nazionalismo esasperato.

china di Dora Casuscelli

Se le risposte della Scuola di Francoforte, del Personalismo, del Liberalismo crociano e popperiano avrebbero cercato definizioni della azione storica in senso rispettivamente rivoluzionario o partecipativo o di capacità di distinzione della sfera della Società Civile da quella dello Stato, in una comune prospettiva democratica, vi furono anche, con le Avanguardie artistiche, uomini e donne  capaci di reagire alla vita in crisi (Zambrano) o sotto regime, recuperando, come eremiti dai loro retiros, modalità creative che diedero vita a una vera e propria rivoluzione dell’immaginario, dal movimento della Secessione in Austria, decimato alle soglie di quegli anni dall’epidemia Spagnola, alle molteplici manifestazioni della cultura di Weimar, dal Jazz alla musica dodecafonica di Schoenberg, dal teatro alla psicologia della Gestalt all’architettura del Bauhaus, alla generazione del ’27 in Spagna.

foto di Enrico Blundo

Circa cento anni fa, quell’epoca di crisi acuita dal crollo economico del 1929, svelò le sue potenzialità di vita come una melagrana tanto più lucente quanto più lacerata, capace nei suoi riflessi di raccordare una molteplicità di tempi (Zambrano), di fonti e di istanze, anche asimmetriche e dissonanti, indistinguibili dai caratteri del cosiddetto Secolo Breve.

La malattia dell’Aktivismus.

Non è difficile a un acuto lettore riscontrare somiglianze con il momento attuale. La sosta forzata della crisi coronaria se da un lato, in un primo momento, come presagito da Crepet, sembra schiudere alla psiche un’apertura di tempo inedito, con l’opportunità di accedere alla dimensione del , dall’altro, soprattutto attraverso gli strumenti telematici, tanto esaltati quanto senz’anima, in un secondo momento sembra portare più che alla definizione di un’azione storica e di nuove forme di vita, ad un esasperato Aktivismus dell’Io pseudo-comunicativo. Quel che più sembra avvicinare più in qualche modo distanzia da componenti essenziali, inesprimibili dell’essere umano, il quale, come affermano gli studiosi della comunicazione, trasmette in massima parte se stesso con la presenza corporea e in minima parte con il linguaggio parlato, che da solo e attraverso questi mezzi poco sa dire di quanto di più profondo lo spirito vorrebbe esprimere.

china di Dora Casuscelli

Un parlare e un agire quello di chi si ammala di Aktivismus che probabilmente si deve a un bisogno di colmare il vuoto aperto dalla paura, la ferita della melagrana, considerato che ogni parola e azione umana e perfino la cultura altro non sarebbero, secondo María Zambrano, che tentativi di vestire la nudità della nostra paura dinanzi alla morte, ropajes: roba che ci buttiamo addosso per coprire il nostro smarrimento, il nostro essere desamparados (senza riparo, mi piace dire alla valenciana) in un habitat di terra devastata che ci si rivolta contro, una volta persa la nostra connessione vitale con essa.

Come l’uomo di Alcatraz.

La negazione del corpo, la sua reclusione, la riduzione dello spazio anche fisico del godimento dei diritti fondamentali a partire dalla prima libertà della persona, quella fisica di muoversi liberamente nello spazio, rappresenta un handicap universale dinanzi al quale restare umani o non restarlo diventa una opzione simile a quella che probabilmente si pone a chi entra in una dimensione carceraria, con la differenza che in questo caso la limitazione della libertà non si deve a un delitto.

foto di Enrico Blundo

Potremmo allora allevare uccellini come l’uomo di Alcatraz, riscrivere il Decameron o la Reserche, oppure, all’altro estremo, abbrutirci nel rancore contro questo o quel supposto untore o il politico di turno, cercando, nell’eventuale veicolo di trasmissione virologica informativa o decisionale, l’insondabile ragione di qualcosa che appartiene all’imponderabile: una minima creatura di cui si sconosce l’utilità, un virus che atterra la tracotanza dell’uomo che in ragione delle proprie capacità tecniche si è elevato a Dio e non posto a custode della Terra che gli è stata donata.

Frastuono e Silenzio.

Solo chi sa cogliere il mistero della melagrana, l’aura ineffabile delle cose create, può custodirle con delicatezza. E invece prevale il frastuono dell’Homo Faber, che sembra continuare a coprire, nel suo continuare a re-agire, le giuste ragioni di chi perde tutto; e il grido di equità e di fame resta sommerso ancora una volta dalla chiacchiera dal si dice e dalla moda, condivise solo nella sfera telematica e non più in quella reale, di clic in clic, non trovando accoglienza per essere ascoltato, non dai media o dalla politica, ma dal luogo naturale in cui potrebbe attecchire, il campo solidale di un nuovo ethos che nasca dal Silenzio.

L’’attaccamento al particulare

Non ha senso ed è contro la realtà dei tempi l’attaccamento al particulare di guicciardiniana memoria o alla roba verghiana, che si tratti di una casellina burocratica o di un conto in banca, o la mela che preferivo mangiare o il controllo medico o il viaggio che dovevo fare. Più mi attacco a ciò che fluisce in questo torrente di morte, in cui pure la parola positivo assume un senso negativo, più ne sarò trascinato.

Chiosando Zambrano, occorre recuperare, vivendo la sospensione, prima il silenzio e il distacco, per poi giungere alla azione vera che apre ogni vita alla speranza che le è connaturata.

Senza saper restare in questa dimensione, ci si agita molto ma non si conclude nulla. Allo stesso modo è deleterio voler affrettare un destino che non conosciamo, decisioni di cui non siamo partecipi, e giungere anticipatamente a conclusioni che non possediamo.

Occorre invece continuare a dimorare nel tempo e nell’Aperto interiore, seguendo i chiari del bosco zambraniani che, seppure appaiono distanti in questa oscurità, si rivelano miracolosamente concordi in un ordine che non è quello aspettato e che può sorprenderci sempre, corrispondendo all’Attesa.

E intanto la violenza verbale, la ricerca dello scontro, l’aggressività familiare o politica… Come si fa?

china di Dora Casuscelli

Per un’Etica della soglia.

Se si imparasse a riconoscere nel silenzio e con distanza l’Altro nella sua sacralità, nella sua somiglianza e dissomiglianza non più da un noi discostato da isolamento e mascherine, ma innanzitutto da me, e prendere la misura di quanto da me è lontano, quando mi elevo a idolo, il che mi raccorda agli altri ed alla Terra… Provare ad occhi socchiusi a ri-vedere l’Altro, e l’Altro che è in me, nel suo mistero che tanto più emerge sul filo di un possibile e speriamo per tutti scongiurato tramonto… Quale rispetto ne emergerebbe, quale venerazione, per un’etica forte e fragile insieme, capace, nel vivere che tiene in conto la morte, di scoprire sensi e significati inediti o per lungo tempo smarriti, in una nuova epifania dei volti.

Anticorpi.

Quando saremo riemersi dalle nostre grotte e ci riconosceremo forse diversi, potremmo esser salvi dal quel mondo malato in cui credevano di poter restare sani (Bergoglio), secondo come avremo vissuto questo tempo; a patto di farci il tampone dell’anima e desistere dalla contagiosa malattia dell’Aktivismus, della fretta, del superlavoro, dell’azione per l’azione, del parlare perché abbiamo la bocca, malattia che come Occidentali ci ha preso e ancora ci prende, e quel che peggio, senza che ce ne accorgiamo.

Quali validi anticorpi a questo morbo tutto occidentale, andrebbero recuperati dal cuore stesso della nostra tradizione la letteratura patristica e monastica, le Guide dei filosofi ebrei ed islamici, il quietismo, la mistica, i filosofi dell’interiorità, da Seneca ad Agostino a Montaigne a Pascal, dissetandoci ai freschi torrenti della tradizione benedettina, francescana, carmelitana, che nel riequilibrare azione e contemplazione rivangarono e costruirono l’Europa mediatrice sulle rovine del mondo romano e barbarico, aprendo radure.

Non c’è bisogno di esotismi per ritrovare dentro di noi quel supplemento d’anima che Bergson auspicava per questa Terra, il cui slancio vitale non è sufficiente a investire di sé i nostri eccessivi manufatti. Quel supplemento è obliato nel profondo delle nostre culture. “Dal profondo a te grido, Signore”; perché, mentre seppelliamo i morti, in un modo estremamente terrestre, la vanga tocca la crudezza delle radici mortali ma anche la linfa che da esse riemerge, poiché non è dell’umano il mero sopravvivere, come qualcuno vorrebbe a forza di moltiplicare parole e azioni, ma soprattutto il Vivere in un Senso, come i chicchi di una melagrana, connubio ancora e soprattutto possibile nel tempo del Coronavirus.

(riproduzione testo e immagini riservata)

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