“Cinque stanze per Stefano D’Arrigo”: parole e danza svelano l’uomo e l’autore 

“Cinque stanze per Stefano D’Arrigo”: parole e danza svelano l’uomo e l’autore 

Emanuela Giorgianni

“Cinque stanze per Stefano D’Arrigo”: parole e danza svelano l’uomo e l’autore 

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lunedì 29 Agosto 2022 - 07:24

Al Cortile Teatro Festival, la Compagnia Insana porta in scena il grande scrittore messinese, tra la realtà della sua vita e il repertorio mitico del suo sognare

MESSINA – Un viaggio nel mondo darrighiano, tra la realtà della sua vita e il repertorio mitico del suo sognare; una performance dello Stretto, quello Stretto che D’Arrigo scelse sempre come protagonista.

Cinque stanze per Stefano D’Arrigo

Questo è “Cinque stanze per Stefano D’Arrigo” della Compagnia Insana, presentato al Cortile Teatro Festival, presso la Tenuta Rasocolmo. Lavoro nato dalla partitura scenica di Dario Tomasello(in occasione della “Notte della ricerca 2021” organizzata dall’Università di Messina) e portato adesso in scena, in occasione del trentennale dalla morte dello scrittore messinese, insieme alle allieve del Dams di Messina: Mariarita Andronaco, Federica Giglia, Aurora Grasso, Lorena Pagano.

Una lettura inedita e suggestiva nella quale il vissuto di D’Arrigo (interpretato da Tomasello) si incontra e confonde con ciò cui la sua immaginazione ha dato vita; una partitura scenica attenta che si compone di dialoghi originali e del riadattamento di brani tratti dall’Horcynus Orca. L’opera apre la porta su cinque stanze, ciascuna delle quali svela qualcosa tanto dell’autore quanto della figure del suo capolavoro Horcynus Orca, l’uno accanto alle altre, senza confine tra realtà e immaginazione. Cinque stanze intese quasi come unità strofica di una canzone unica ed eterogenea, tra il potere evocativo e trascinante di parole, immagini, musiche e coreografie che si intrecciano, si abbracciano e completano.

D’Arrigo tra vita e creazione

Incontriamo subito un D’Arrigo circondato da fogli, accartocciati sulla scrivania e sul pavimento, e poi appesi dalla moglie con mollette lungo dei fili, come se si trattasse di biancheria. D’Arrigo è alla prese con la fatica della scrittura (la stesura dell’Horcynus gli prese più di vent’anni) e si fa Ulisse alla ricerca di se stesso, tra la concretezza del reale e l’illusorietà della fantasia. 

Questo ci permetterà di conoscere, avanzando per le cinque stanze, prima di tutto il D’Arrigo uomo, il D’Arrigo della vita quotidiana, caratterizzato da un fortissimo e determinante rapporto con il femminile; a partire dalla madre, nota maîtresse, la cui vergogna lo angosciò per tutta la vita, per finire con sua moglie Jutta, tra presunti tradimenti e gelosie: quella di D’Arrigo per il legame di Jutta con il ragioniere e quella della moglie per le lunghe lettere scambiate dal marito con Renato [Guttuso]. Ma conosciamo anche il D’Arrigo autore, il D’Arrigo messo a confronto con il suo ricco repertorio mitografico. Incontrerà Jacoma (Mariarita Andronaco) che vuole vendergli le sue femminote (Aurora Grasso e Lorena Pagano) e delle donne in lutto, alle quali offrirà una voce leggendo lui stesso le parole di Ciccina Circè (trovate tra le altre cartacce scritte la sera prima senza averne memoria), parole di dolore, parole di morte.

D’Arrigo e la sua coscienza

A fare da grande file rouge di questo percorso tra reale e immaginario è proprio l’ispirazione. Lo spettacolo diventa allegoria dell’ispirazione darrighiana, del processo creativo all’interno della sua mente, tra dubbi, angosce, splendori e misteri, sapori e saperi. E, alla fine, questo filo conduttore velato si rivela direttamente sul palco, quando D’Arrigo incontra e si scontra con una misteriosa figura mascherata (Mariarita Andronaco). Questa lo incalza: “Ce la farai ad arrivare in fondo alla traversata? Ce la farai ad arrivare in fondo al romanzo?”; lo sfida, lo pone spalle al muro e poi fugge via.

È il confronto di D’Arrigo con la sua ispirazione faticosa, il confronto con questo amletico spettro, il confronto diretto con la sua coscienza.

La scelta, inedita, diviene chiave di volta per uno spettacolo che introduce nel contorto mondo darrighiano, cercando di renderlo più tangibile, di svelarlo pur nella sua intricata complessità.

La danza

Il merito è, anche, di un incontro vincente tra forme artistiche diverse. La musica e la danza offrono alla storia la forza di un altro linguaggio, quello del corpo. Le attente scelte musicali (alla regia audio Roberto Pappalardo) e le coreografie (di Aurora Grasso e Lorena Pagano) non solo donano suoni e ritmi che suggellano la narrazione, ma danno forma ai temi fondamentali della poetica darrighiana e dell’interpretazione datale dalla Compagnia Insana. Dalla prima coreografia, che vuole mostrare la lotta tra la vita e la morte, sempre presente nell’Horcynus Orca; fino all’ultima, un alternarsi tra gioco e violenza, giovinezza e crescita, forza e paura, in richiamo anche al personale di D’Arrigo, al famoso e sofferto legame con la mamma.

Il finale

Parole, movimenti e suoni, in simbiosi, ci guidano fino alla fine di questo allegorico cammino. D’Arrigo, naufrago della sua storia, e noi con lui, naufraghi tra le onde del suo mare e dei suoi agitati pensieri, tra il canto delle orche e il tintinnio delle campanelle, giungiamo al termine del percorso, la cui chiosa è affidata alle parole di un altro grande messinese: Bartolo Cattafi. Ripetendo in coro le parole di Cattafi dedicate alla sua Messina, tutti i personaggi, reali e immaginari, chiudono D’Arrigo in un cerchio dal quale non riesce a trovare scampo nè riparo. È l’ora dei conti, i conti con il suo pensare, con la sua tormentata immaginazione e la sua costante indecisione; i conti con la sua vita, i suoi dolori e le sue ossessioni; i conti con la sua storia che sembra non riuscire a finire; i conti con se stesso e tutti i suoi punti di domanda.

Punti di domanda che, forse, non sono solo quelli di un grande scrittore, che si rivela in tutta la sua umanità, ma anche i dubbi di ciascuno di noi. Riusciremo noi a portare a termine il nostro di cammino? Riusciremo noi ad ascoltare il canto nuovo, anzi antico, che è sempre stato nei nostri cuori? O, forse, i fortunali del destino, i capricci della solitudine avranno la meglio?

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