Il vice-direttore del Tg5 ricorda Falcone: “Un giorno il giudice mi disse: ricordati che il denaro puzza e seguendone l’odore puoi trovare da quali tasche è uscito e quali mani lo hanno manipolato”
«Sono un milanese, trapiantato a Roma e cittadino onorario di Cetraro (piccolo paese in provincia di Cosenza)». Andrea Pamparana, vice-direttore del TG5, è l’autore di Malacarne – Uomini di ‘ndrangheta (Marco Tropea editore; pp. 250; €17,50), il suo diciottesimo libro. Si tratta di un’avvincente e documentata vicenda narrata con lo stile della docu-fiction (come avvenne per la prima volta nel 1990 per il suo primo libro legato alle mafie, “Cosa Nostra s.p.a”) che ben documenta i traffici e le operazioni della più potente multinazionale del crimine, la ‘ndrangheta, che vanta un enorme fatturato: «le stime ufficiali parlano di 45 miliardi di euro, circa il 3% del nostro p.i.l. e ovviamente, tutto in nero». In Malacarne, Pamparana svela i traffici di droga ma soprattutto rivela le speculazioni economiche che permettono di riciclare e re-investire sul mercato mondiale, investendo in immobili ma anche nell’eolico. «La ‘ndrangheta non a caso è l’organizzazione criminale più “affidabile”» e se all’orizzonte si profilano l’Expo e il Ponte sullo Stretto non resta che vigilare «con grande, grande attenzione».
Sin dal titolo, “Malacarne”, lei sottolinea il suo pensiero riguardo gli uomini di ‘ndrangheta.
«Molti uomini della ‘ndrangheta hanno dimenticato il coraggio e la fierezza del popolo calabrese che fa parte di quello italiano e di quello europeo. Il titolo è un’idea di un calabrese doc qual è l’editore Marco Tropea. Soprattutto voi siciliani sapete bene che quell’appellativo si riferisce alle persone che abitano determinati quartieri malfamati, i malacarne».
Sin dalle primissime pagine lei sottolinea che le mafie non sono più legate esclusivamente al Mezzogiorno. Eppure nonostante Duisburg e i sequestri di beni operati in tutt’Italia, è difficile sentir parlare di mafia oltreconfine. Come mai?
«Fa certamente comodo confinare questo problema fra le tante problematiche secolari del Meridione che si considerano ormai irrisolvibili e danno luogo anche a spiegazioni strampalate, chiamando in causa persino la genetica. La ‘ndrnagheta che è la mafia più ricca, si sposta dove ci sono più soldi e questi non si trovano certamente sulla Sila ma a Piazza Affari e sull’Expo, laddove ci sono lavoro e grossi capitali insomma».
Le mafie oltreconfine hanno rappresentanti laureati che acquistano beni ed investono anche nell’eolico. Come si può combattere questa versione aggiornata della ‘ndrangheta?
«Come mi diceva il più grande esperto nella lotta alle mafie, Giovanni Falcone: “ricordati che il denaro puzza e seguendone l’odore puoi trovare da quali tasche è uscito e quali mani lo hanno manipolato”. Tutte le mafia, anche quelle internazionali, possono essere sconfitte solo colpendo i loro interessi. Facciamoci questa domanda: Perché si diventa mafiosi? A mio avviso per avere più potere, soprattutto da un punto di vista economico. Perché i ragazzini di Scampia fanno le vedette per la camorra? Perché la camorra dà loro 150€ al giorno e a sedici anni dovrebbero essere a scuola a studiare. La chiave è questa fame di denaro per cui solo se le si contrasta davvero dal punto di vista economico si possono sconfiggere le mafie».
Nel libro lei sottolinea come le organizzazioni internazionali preferiscano collaborare con la ‘ndrangheta, reputandola più affidabile. Perché?
«Innanzitutto per una questione di solvibilità. La ‘ndrangheta in questo momento ha un fatturato enorme, che si attesta sui 45 miliardi di euro secondo le stime ufficiali e corrisponde a più del 3% del pil nazionale ed è tutto in nero. Ma non è solo una questione economica: Cosa Nostra ha avuto dei collaboratori di giustizia di grossissimo spessore invece la ‘ndrangheta no ed inoltre quest’ultima vanta una struttura di tipo familistico più salda ed ermetica che le consente anche una maggiore infiltrazione nel Nord che gli consente maggiori investimenti».
A dispetto di ciò che avviene oltreconfine, in Calabria la ‘ndrangheta ha un aspetto arcaico, molto legata alla religiosità. Come si spiega questa cristallizzazione nel tempo?
«Sono rimaste delle radici profondamente legate alla cultura religiosa e popolare sin dall’iniziazione in nome di San Michele Arcangelo. Per questo è importante sottolineare il lavoro di quei giovani sacerdoti che “lavorano ai fianchi” la criminalità organizzata sul territorio, fornendo alle nuove generazioni stili di vita alternativi».
Ritornando alle parole di Falcone e alla “puzza dei soldi”, molto si è discusso dello scudo fiscale, soprattutto da un punto di vista etico. Può essere inteso come un messaggio equivoco o negativo da parte del governo?
«Lo scudo fiscale è stato definito da diversi esperti in modo negativo proprio per questo motivo e credo che anche al Ministero dell’Economia ne fossero ben consci. Il problema era quello di consentire un massiccio rientro di capitali per far cassa. Sicuramente anche in questo caso, come sempre accade, c’è la necessità di non buttar via il bambino con l’acqua sporca. Francesco Greco, procuratore aggiunto a Milano, mi diceva che obiettivamente non ci sono stati grandi processi legati al riciclaggio di denaro e sino ad oggi non si è mai sentito che i tesori della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta fossero custoditi in una banca svizzera. Non è una questione semplice e anche nel libro ho cercato di far capire come i sistemi di riciclaggio siano vere e proprie speculazioni finanziarie legate a Piazza Affari e non alla coppola e al fucile».
Il magistrato Francesco Cascini, che ha trascorso i suoi primi anni di lavoro nella Locride, si mostrava dubbioso circa le attuali strategie di lotta alle mafie per una carenza di mezzi del sistema. Come si possono convincere i giudici ad andare in queste procure “bollenti”?
«Di recente c’è stato un incontro con il Presidente della Repubblica durante il quale giovani magistrati hanno espresso il loro desiderio di cominciare a lavorare in prima linea ma bisogna fare attenzione perché non si possono mandare allo sbaraglio persone prive di esperienza. Del resto Falcone, Borsellino, Chinnici, Livatino, Scopelliti erano magistrati che avevano sulle spalle l’esperienza, la forza e la maturità che veniva loro da numerose inchieste. Voglio segnalare che c’è anche uno squilibrio nei mezzi, difatti un magistrato importante mi ha detto “se avessimo la metà dei mezzi che hanno i nostri colleghi siciliani, potremmo fare molto di più” ma soprattutto è necessario che lo Stato si schieri con forza dalla parte dei magistrati perché loro stessi, agendo in nome del popolo italiano, sono lo Stato. Nella lotta alle mafie, lo Stato deve presentarsi come un molosso in tutte le sue componenti, dalle forze dell’ordine sino alla magistratura alla classe politica. A dire il vero ho molta fiducia nella giovane classe politica calabrese e nel libro parlo di Giuseppe Aieta, sindaco di Cetraro, una cittadina in provincia di Cosenza legata alla faccenda della “nave dei veleni”. Credo che ci siano giovani capaci in ambito ecclesiastico ma anche in ambito politico che possono e devono fare molto per far sì che le nuove generazioni non nutrano più l’impellente desiderio di fuggire e lasciarsi alle spalle la propria terra ricchi di rimpianti».
Le cifre di cui parla fanno paura e all’orizzonte si profilano l’Expo e il Ponte sullo Stretto. Che scenario prevede?
«Bisognerà vigilare con grandissima attenzione perché sono due eventi che non possono non fare gola. Del resto il fatto che a Milano si discuta sulla necessità di dar vita ad una commissione d’inchiesta sull’Expo desta grandi preoccupazioni».
