Roberta Mani e Roberto Rossi raccontano le loro storie in un libro-inchiesta
«Abbiamo pensato alla parola ‘avamposto’, solitamente usata nei teatri di guerra, perché per molti giornalisti lavorare nel Sud Italia è come essere in un territorio vittima di un conflitto». Avamposto. Nella Calabria dei giornalisti infami è infatti il titolo del libro che Roberta Mani, caporedattore centrale di News Mediaset e Roberto Rossi, giornalista di “Problemi dell’informazione”, hanno dedicato alle storie dei cronisti minacciati dalla ‘ndrangheta. Lucio Musolino, Agostino Pantano e Angela Corica sono alcuni dei nomi dei protagonisti del racconto, che racchiude le testimonianze di uomini e donne paladini della legalità.
Nelle pagine di questa inchiesta, come amano dire gli autori «non ci sono eroi ma persone in pericolo per aver creduto nel diritto di cronaca». Un fenomeno grave che non riguarda solo il territorio calabrese ma tutto il Mezzogiorno e che getta discredito sulla civiltà del nostro Paese: l’Italia ha il primato europeo nelle intimidazioni ai giornalisti.
Anche per questo è nato “Ossigeno per l’Informazione”, l’osservatorio FNSI-OdG sui giornalisti minacciati, diretto da Alberto Spampinato, corrispondente dell’Ansa e fratello di Giovanni Spampinato, cronista assassinato dalla mafia il 27 ottobre 1972. «Nonostante la pluralità dei mezzi d’informazione, oggi dobbiamo ancora parlare di mancanza di libertà d’opinione – commenta Spampinato – le notizie scomode fanno paura. Negli ultimi cinquant’anni sono stati uccisi nove giornalisti dalla mafia e due dal terrorismo. Questo ci rende un Paese diverso dagli altri».
Realtà locali molto chiuse, piccole redazioni di provincia e la «cappa che si percepisce immediatamente», sono state raccontate dagli autori del libro. Roberto Rossi è nato a Catania e le difficoltà di alcuni contesti le ha conosciute in prima persona: «Avevo tredici anni quando è morto Falcone, ricordo la disperazione dei miei genitori. Ma la violenza della malavita organizzata la vivevo quotidianamente nel mio quartiere. Quello che deve fare più paura è il silenzio al quale ci vogliono abituare». Per questo hanno raccolto le testimonianze dei colleghi calabresi, «per far conoscere questo spaccato d’Italia», ammette Roberta Mani che insieme a Rossi ha risposto ad alcune domande, parlando degli «uomini soli» protagonisti di Avamposto.
Questi cronisti definiti “soli”, hanno più paura del rumore dei nemici o del silenzio degli amici?
«Sicuramente del silenzio – risponde Roberta Mani – dell’atteggiamento che iniziano a vedere anche da parte di alcuni colleghi. Molte volte vengono visti come delle ‘prime donne’. Ma in realtà stanno semplicemente facendo il proprio dovere, da professionisti seri che amano il proprio mestiere».
Un caso mediatico importante come quello di Roberto Saviano aiuta a tenere i riflettori accesi su questo tema?
«Saviano ha il merito di aver aperto una breccia, di aver fatto tornare i giornali a occuparsi di questi temi – concorda Rossi – ma esistono tanti bravi giornalisti che vivono i suoi stessi pericoli nell’ombra. L’unica cosa che chiedo a Saviano e di parlare anche di loro». La Mani aggiunge: «Sappiamo che si occuperà di ‘ndrangheta. Gomorra ha avuto un’importanza notevole nel combattere la camorra, spero che continui così».
Voi parlate di censura violenta. Ma la precarietà che vivono molti giornalisti non è una prima forma di censura?
«Lo è, e la cosa che fa più male è vedere che in pochi si stupiscono di come vengono trattati molti professionisti». Replica Mani. «Pensiamo al caso dei calzini turchesi del giudice Mesiano – conclude Rossi – a fare quel servizio fu una precaria. Si capisce che cattivo giornalismo e precarietà viaggiano insieme».
