"Il Gattopardo", capolavoro restaurato 50 anni dopo

“Il Gattopardo”, capolavoro restaurato 50 anni dopo

Tosi Siragusa

“Il Gattopardo”, capolavoro restaurato 50 anni dopo

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giovedì 24 Aprile 2014 - 22:39

Il lungometraggio, secondo il critico marxista Aristarco, avrebbe dovuto avere quell’ampiezza di visione della storia che manca al romanzo. Visconti era all’epoca aristocratico e comunista e bandiera della critica di sinistra ed il film creò inizialmente disappunto fra le file dei suoi sostenitori, ravvisandosi che Visconti disprezzava troppo don Calogero e non aveva, certo, toni entusiastici per il ceto contadino

Il 23 aprile presso il Multisala Apollo di Messina, si è assistito alla visione di un altro capolavoro restaurato, Il Gattopardo, che nel 2013 ha festeggiato un percorso lungo 50 anni dalla sua prima proiezione il 27-03-1963, quando fu accolto quale trionfo a livello internazionale del cinema italiano (fu vincitore della palma d’oro a Cannes) e come lancio consistente di immagine della Sicilia nel mondo. Trattasi, come è noto, del dramma psicologico e sociale del principe Don Fabrizio di Salina, che, dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, assistette al decadere di quell’aristocrazia, di cui era stato degno rappresentante ed all’avvento della borghesia affaristica, impersonata dal futuro consuocero, Don Calogero Sedara. Il lungometrag­gio del grandissimo Visconti è strettamente connesso al mito letterario, costituito da quel romanzo di G. Tomasi di Lampedusa, edito nel 1958, da Feltrinelli e vincitore nel 1959 del premio Strega, dal quale il film è tratto (con l’intermediazione della sceneggiatura di Visconti e Suso Cecchi d’Amico, oltre che di P. Festa Campanile e altri), origina e si relaziona, quel bestseller italiano di massa, con una visione che si fonda sul rifiuto sprezzante di ogni ruolo progressista della borghesia italiana (e non è solo il romanzo di un aristocratico siciliano). Il Gattopardo costituì l’adattamento più fedele del regista, pur se con le modifiche ritenute necessarie, ad esempio l’eliminazione del capitolo VII e dell’VIII: la pellicola si chiude, infatti, nel 1862, condensando idealmente nel gran ballo finale, nella dilatazione iperbolica del tempo del ballo, i due ultimi capitoli, che narrano la morte del principe, tratteggiando un ritratto malinconico dei superstiti, anni dopo; altra modifica riguarda il colore dell’abito di Angelica al ballo, come si spiegherà dopo.

Il lungometraggio, secondo il critico marxista Aristarco, avrebbe dovuto avere quell’ampiezza di visione della storia che manca al romanzo. Visconti era all’epoca aristocratico e comunista e bandiera della critica di sinistra ed il film creò inizialmente disappunto fra le file dei suoi sostenitori, ravvisandosi che Visconti disprezzava troppo don Calogero e non aveva, certo, toni entusiastici per il ceto contadino. Protagonisti del film sono il tempo e la storia, la fine delle illusioni, il Risorgimento tradito ed un epos della decadenza, ma pensando al periodo in cui fu girato ed ai suoi set, scelti con lo scenografo Mario Garbuglia (Villa Boscogrande, per rappresentare Villa Salina ed il paese di Ciminna, ove fu ambientata la vicenda che nel romanzo si svolge a Donna Fugata, nome immaginario dietro cui si celava Palma di Montechiaro, mentre la sequenza interminabile del ballo, della durata di 44 minuti e mezzo, dal carattere quasi ossessivo di viaggio nel tempo, fu girata a Palazzo Ganci di Palermo) rinveniamo una metafora della resistenza tradita e riferimenti ancor più contemporanei alla Palermo del sacco edilizio e della sanguinosa guerra di mafia ed all’ultimo periodo del miracolo economico. Tornando al ballo – coreografato da Alberto Testa, per il quale Nino Rota ha arrangiato un inedito valzer di Verdi – esso è vissuto con lo stato d’animo del principe, reso magistralmente da un grande Burt Lancaster ed il tema dello sguardo (il principe Salina, che osserva ed è quasi scollegato dal mondo esterno, sempre alle prese con finestre, specchi, cannocchiali… quello sguardo, insomma, domina il film) del principe coincide con quello viscontiano. Il Gattopardo uscì lo stesso anno di 8 e ½ ed in un periodo in cui il cinema moderno della Nouvelle Vague poneva l’autore in primo piano. Angelica e Tancredi sono gli unici rappresentanti dei tempi nuovi, con le bellissime fattezze di Alain Delon e Claudia Cardinale… ma su Tancredi Visconti sembra scisso… il personaggio non gli appare solo cinico… ma, crede, in lui si riverberino i lumi di civiltà, nobiltà e virilità, che l’immobilismo feudale ha cristallizzato nel principe Fabrizio. In Tancredi e Angelica e nella notte del ballo Visconti voleva omaggiare Proust ed i suoi Swann e Odette, in Don Calogero Sedara, reso da Paolo Stoppa, mastro Don Gesualdo di Verga. Il film risultò costosissimo, con quel cast di divi internazionali ed attori, teatrali e non (fra i quali Pierre Clementi, Giuliano Gemma, Mario Girotti, Lou Castel, etc ed anche Rina Morelli, nel ruolo della principessa di Salina, Romolo Valli e l’esordiente Ottavia Piccolo, che è una delle figlie del principe Salina) ed ottenne un grande successo di pubblico, contribuendo, però, alla irreversibile crisi della Titanus, che deteneva i diritti del romanzo e voleva farne il “Via col vento” italiano; Goffredo Lombardi comunque affermò “Come produttore, mi basterà aver fatto Il Gattopardo. Splendida la fotografia di Giuseppe Rotunno.

Il ballo segnò l’apoteosi del costumista Piero Tosi, che aveva preparato la documentazione occorrente da tempo, studiato a fondo il Museo del Risorgimento e setacciato i cassetti di nobili palermitani. L’abito del debutto in società della protagonista fu disegnato color medusa e non nel rosa hollywoodiano del romanzo e realizzato con organza Dior opaline, un po’ retrodatata. L’abito della principessa Salina aveva invece toni funerei ed era ispirato all’opulenza della pasticceria siciliana. Nella memoria di Tosi il ballo del Gattopardo restò come il lavoro più stressante della sua carriera, ma, certamente, è riuscito a creare costumi filologicamente curatissimi.

Il Gattopardo è considerato film-cesura fra la prima maniera di Visconti, in bilico fra impegno neorealista e “derive decadenti” ed una seconda fase, in cui il suo sguardo si rivolgerà a mondi scomparsi e personaggi alto- borghesi e aristocratici (con una seduzione per il mondo nazista, come nella “Caduta degli dei”).

Dopo Il Gattopardo, Visconti metterà molto di sé nell’Aschenbach di “Morte a Venezia” e nel professore di “Gruppo di famiglia in un interno”, mentre prima aveva trasfuso se stesso nella contessa Serpieri in “Senso”, sospesa fra dovere e amore (impegno e vocazione).

Oggi numerosi cortometraggi si ispirano al capolavoro viscontiano, considerato uno dei 100 film italiani da salvare, che disvela la cosiddetta “sicilianitudine” e che, se visionato 100 volte, rivelerà sempre qualcosa che era sfuggito.

In conclusione Il Gattopardo, nonostante i 50 anni dalla prima uscita, è ancora attuale e può quasi definirsi un arazzo stupefacente, in cui riecheggiano le bellezze artistiche ed architettoniche siciliane, evocando atmosfere di un mondo governato dai ritmi esistenziali dell’aristocrazia fondiaria di Sicilia, tratteggiata nel romanzo di Tomasi di Lampedusa.

Il capolavoro di Visconti e mito indiscusso in ambito cinematografico, dà una profonda lettura della transizione della storia italiana, da paese arcaico a mondo industriale, integrato nel consesso europeo di nazione.

La pellicola riflette dunque l’identità italiana, è specchio fedele di quel passaggio, non sempre avvenuto, tra sclerosi feudale e società industriale moderna ed è rappresentativa di quella decadenza, che peraltro ha spesso caratterizzato la filmografia del cineasta, da “Senso” (che porta in scena la disfatta della Terza Guerra d’Indipendenza), a “Rocco e i suoi fratelli” (che descrive la dissoluzione di una famiglia intera, immigrata al nord), fino alla “Caduta degli dei” (con l’imposizione del regime violento del Terzo Reich tedesco) passando per Il Gattopardo (con i fasti della Sicilia borbonica acquisita al Regno Sabaudo).

Negli occhi disincantati del Principe Fabrizio rivive dunque la dissoluzione di un passato dove la nobiltà ha ceduto il passo all’ascesa della borghesia, mentre l’Italia ha abbandonato un evo contadino, mitico e religioso, per appropinquarsi ad un’era tecnologicamente più evoluta.

Memorabile è il dialogo fra il principe ed il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, che dà il senso di quella concezione della nostra Trinacria in cui ogni cosa è forte, asfissiante ed impalpabile in uno e come viene se ne va, lasciando tracce indelebili, che si sedimentano una sull’altra ed è questo anche il senso dell’affermazione del principe don Fabrizio (durante una conversazione con l’organista Ciccio Tumeo) “Qualcosa doveva cambiare perché tutto restasse come era prima”, che è divenuto celebre brocardo del gattopardismo, che ormai trascende la Sicilia ed i Siciliani.

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