"Come il vento" di Claudio Buemi

“Come il vento” di Claudio Buemi

Redazione cultura

“Come il vento” di Claudio Buemi

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sabato 28 Marzo 2015 - 17:59

Un momento da dedicare a se stessi, un angolo dalle luci soffuse, per raccontarsi e raccontare, e ritrovarsi nei racconti degli altri. Inviateci pure i vostri lavori, romanzi o racconti a raccontodellasera@gmail.com: i migliori diventeranno Il Racconto della Sera.

Come il vento

Mi ascolti? Sono io. Sono l’immagine sbiadita di un ricordo. Ricordi? La sera mi riporta indietro, mi riporta alla nostra stagione. Adesso ti sento più vicina. Lo hai sentito pure tu? Quel rumore breve, come un istante, come un battito di ciglia. Si è stabilita una connessione tra gli attimi di questo presente, e noi siamo di nuovo insieme. Ti vedo meglio, questa sera, e voglio parlarti. Mi ascolti? Sono io. Sembra assurdo, ma questa oscurità ci ha riconciliato. Forse, per un’ultima volta. Voglio parlarti. Voglio dirti ciò che non ti ho mai detto, perché non ne ho avuto l’occasione, o, cosa ancora più probabile, perché non ne ho avuto il coraggio. Il silenzio della sera mi ha spinto fin qui, riconducendomi, d’un tratto, a te. Eppure ti penso raramente, davvero. Spero che tu non ti offenda, ma voglio essere la stessa persona sincera che hai conosciuto, qualche tempo fa. Questa sera, i pensieri, le parole che ti vado dicendo, mi pesano. Tu stessa, mi pesi. A volte ho pensato di odiarti. Durante le mie giornate, non riuscivo a concentrarmi in nulla. Il sole che splendeva nella città eterna, anziché donarmi nuove speranze, mi relegava nella solitudine di pensieri sconnessi, privi di logicità alcuna. E tu eri sempre lì, vicina e distante, come quelle isole che nelle giornate d’estate amo osservare. Poi sei scomparsa nel nulla. Credimi, non mi hai dato nemmeno il tempo di pensare, che sei andata via. Mi hai sorpreso, come, d’altro canto, eri solita fare. Non so dirti con chiarezza se ero felice, triste, o addirittura arrabbiato. L’unica consapevolezza realmente maturatasi nella mia coscienza, è che tu non c’eri più, e che forse non saresti mai più tornata. Ma non è stato così. Sorrido, lo vedi? Lo so, ti dà fastidio, perché quando sorrido sembro un bambino. Sorrido, sentendo di nuovo i tuoi passi. Sorrido, sentendo la porta della mia stanza, che si apre lentamente. Ora ti vedo. E ti vedo meglio, sai, nell’oscurità. Sembri cambiata. Sembri la stessa diversa di sempre. Vorrei tanto toccarti i capelli, i tuoi capelli, come sabbia d’argento, sentirli sulle mie mani, sentirne l’odore. Vorrei spingermi oltre. Sentire le tue labbra sulle mie. Vorrei stringerti forte. Sentire le tue mani sul mio viso, nello stesso modo in cui il vento accarezza i cespugli. Ma non voglio. Non posso. Sei lontana, parola dopo parola, ti vedo già distante, ed io non posso fare altro che contemplarti, mentre ti allontani via da quella porta, mentre ti allontani, via da me. Non parlare, ti prego. Ascoltami, ancora, un’ultima volta. Ascoltami, anche se hai già varcato il confine che delimita la nostra realtà dal resto dell’umanità. Questa sera dovrà finire, e ho sentito dire che il sole tornerà a splendere. Ho sentito dire che il sole squarcerà il dipinto della notte, squarcerà il vestito della nostra storia. E noi due torneremo ad essere uguali al resto, nello strazio psicologico dell’ogni giorno. Torneremo ad essere uguali a niente. Ma pensaci, pensa bene a dove siamo, in questo istante. Noi possiamo vedere tutto da un’altra prospettiva. Noi possiamo provare gli stessi sentimenti di una volta, senza pensare al domani. L’oscurità è così fitta da non darci la possibilità né di guardare oltre, né di tornare indietro. Siamo noi. Adesso. Come non siamo mai stati. Come non lo è stato mai nessuno, in fondo. E’ tutto così maledettamente falso. Le parole, i gesti, l’amore. Tutto è destinato a perdersi, ad infrangersi sotto l’ombra della realtà. La nostra mente è un’enorme ragnatela, dove si impigliano emozioni, percezioni contrapposte, molte delle quali riescono a staccarsi, finendo poi a cadere nel Grand Canyon del subconscio. Non so più se credere alle amicizie, non so più se credere alle relazioni. Ma noi, in questo preciso istante, siamo diversi. Siamo diversi perché siamo reali. Noi non conosciamo l’inizio. Non conosciamo la fine. La vita. La morte. E’ questo ciò che ci spaventa, e che ci induce a trovare dei rimedi, in una realtà evanescente. Ed è forse questo ciò che ci ha allontanato. La paura di confrontarci con tutto questo. Bisogna imparare a sopravvivere, con segnali, gesti, parole. Non abbiamo mai preso questi accorgimenti. Abbiamo sempre disconosciuto questa arte. Qualcuno direbbe che eravamo incompatibili. Ma non è così. Noi avevamo…paura.

La porta si chiude. Si chiude violentemente, spezzando la calma apparente della notte. Mi alzo dalla poltrona della mia stanza, apro la porta, mi dirigo verso il salotto. La finestra è semi aperta. Mi fermo un istante, poi mi avvicino e la chiudo. Torno a passi lenti verso la porta. Quella stessa porta. Sento solo i miei passi, ed è una sensazione strana. Apro la porta con delicatezza, e la lascio socchiusa. Mi siedo. Guardo il foglio sulla scrivania, rileggo ciò che ho scritto.

Tu non ci sei. Tu non ci sei più.

Il fatto è che non ho mai imparato a scrivere. Non so nemmeno se scrivere abbia un significato, come tutti credono. Se ha un significato scrivere di me, di ciò che provo, del mio passato. Mi sento solo, quando scrivo. Mi sento distante dal resto. E’ forse questa la sensazione più bella. La paradossale sensazione di sentirsi reali, di sentirsi… autentici. Studio e vivo a Roma, eppure vorrei essere sempre altrove. Vorrei essere la musica che ascolto, vorrei rinascere tra i libri che leggo, vorrei vivere i film che vedo. Per questo motivo, scrivere è la mia ragione di vita. Perché è come essere ovunque, nello stesso posto.

Prossimo racconto (1 aprile): "La cassata perfetta" di Fabio D'Angelo

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