Presentato il libro di Lucrezia Lorenzini sul rapporto tra criminalità e società: assente il ministro Alfano, hanno detto la loro il prof. Fedele, i procuratori Lo Forte e Pignatone e il prefetto Alecci. Protagonista di un botta e risposta con l’assessore regionale Centorrino che ha detto: «Esiste una lobby politico-affaristica sottovalutata rispetto alla mafia»
L’ambiguo quanto deleterio rapporto tra mafia e istituzioni. La linea sottile che divide la mafia intesa nel suo senso più stretto e la mafia “inabissata”, che non emerge ma che c’è, esiste, si rafforza sempre più. Questi alcuni dei temi centrali di un pomeriggio di dibattito, di cultura, di riflessione. Ieri a Palazzo Zanca avrebbe dovuto esserci il ministro Angelino Alfano a presentare, tra gli altri, l’apprezzabile opera di Lucrezia Lorenzini, curatrice del volume “Possibilità conoscitive del fenomeno mafia in Sicilia nella letteratura e nelle relazioni Stato-società”. Ma l’assenza del ministro di Grazia e Giustizia, annunciata attraverso una lettera di saluto e giustificata con la più classica delle influenze di stagione, poco ha tolto all’interessante dibattito che si è svolto attorno all’opera della docente messinese di Letteratura e Sociologia siciliana. Un dibattito che non è apparso scontato né “rarefatto”, specie nel certamente imprevisto botta e risposta tra il prefetto di Messina Francesco Alecci e l’attuale assessore regionale all’Istruzione Mario Centorrino. Dibattito arricchito dall’apporto del docente di Storia contemporanea Santi Fedele e dei procuratori capo di Messina e Reggio Calabria, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, moderato dal giornalista Riccardo Arena. A rompere il ghiaccio è stato proprio Centorrino, le cui parole hanno lasciato il segno, specie nel prefetto Alecci. «Esiste un centro di resistenza nella vita amministrativa – ha detto accorato – che rende difficile il tentativo di rinnovamento. Una sorta di “mafia 2”, che vive del suo rapporto con le istituzioni, con la politica e della sua capacità di condizionamento». Centorrino ha illustrato il grande “trucco” degli appalti, quel numerino magico, il 7,3152: «Un ribasso unico, un’anomalia assoluta che per anni ha caratterizzato gli appalti pubblici senza destare reazioni. Oggi c’è un secondo modello, ancor più anomalo: ribassi “provocatori” del 50-60 per cento. Un problema attorno al quale vedo poca attenzione». Dall’assessore regionale è poi giunto una sorta di appello: «Sospendiamo per un anno i sondaggi nelle scuole su mafia e Stato, non è corretto né scientificamente rilevante quello che ne viene fuori». Ossia che la mafia vince sempre.
Parole, quelle di Centorrino, che hanno provocato le “bacchettate” ferme e dure del prefetto Alecci: «E’ scoraggiante sentire che un assessoria sia costretto ad allargare le braccia. Gli appalti? La discrimine dev’essere sempre una: la legge la si applica oppure no. Se non va bene la legge, la si cambia. E soprattutto, non si tolga la parola a nessuno, anzi, la si dia di più. Le dissonanze vanno ascoltate e devono essere oggetto di vincolante riflessione». Centorrino ha voluto dunque correggere il tiro ma al tempo stesso ha tirato fuori una denuncia forte che non può rimanere inascoltata: «Forse ho sbagliato a chiamarla “mafia 2”, chiamiamola lobby affaristico-politica. Ci sono dentro imprenditoria, sindacati, professionisti, politica. L’ho ritrovata nella sanità, nei rifiuti, nella formazione. E’ un fenomeno di grande pericolosità, ma mentre sulla mafia c’è tanta attenzione, contro questa lobby trovo ancora una certa forma di resistenza». Chiusa la parentesi delle “bacchettate”, Alecci ha rivolto uno sguardo al rapporto tra Stato e mafia, riconoscendo che «alcuni rappresentanti dello Stato non hanno assolto al proprio compito e quindi non hanno onorato lo Stato e la comunità. Sono persone che non dovevano stare in quel posto, avrebbero dovuto essere cacciate».
Al prof. Fedele è toccato sottolineare che «dire che la mafia è nel Dna dei siciliani è estremamente pericoloso. La mafia non è una mentalità ma un’organizzazione criminale. Appartiene alla storia e in quanto tale ha nel suo destino una fine». Fedele ha anche preso di mira la “mistificazione” che della mafia ha fatto e fa certa letteratura e soprattutto le fiction televisive: «Il “fascino” del male incarcnato, ad esempio, dal Tano Caridi della Piovra, non è affatto educativo, anzi, andava evitato». Gli addetti ai lavori, se così si può dire, della lotta quotidiana alla mafia ed alla criminalità in senso lato sono i procuratori Lo Forte e Pignatone. Il primo è rimasto abbottonato in un discorso molto tecnico, ricordando le fasi progressive della criminalità mafiosa, dall’estrazione violenta delle risorse del territorio (le estorsioni) fino all’ultimo stadio, la partnership vera e propria con le istituzioni. Ma ha voluto chiudere con ottimismo, «in quanto oggi c’è un patrimonio di conoscenza e impegno che appartiene ad una grandissima maggioranza di forze dell’ordine e magistrati». Più “sciolto” Pignatone, oggi alla Procura di Reggio Calabria, ieri a Palermo a combattere Cosa Nostra: «Le somiglianze tra la Ndrangheta e la mafia siciliana sono sempre maggiori, la differenza è che quella calabrese è meno “inabissata”». Secondo Pignatone è troppo labile il confine tra ciò che è mafia e ciò che “non sembra” mafia. «Sono tanti i fenomeni di illegalità apparantemente non mafiosa, ma se si va a scavare si trova il mafioso doc. Penso all’ex sindaco di Palermo Ciancimino. Quando elaborò il Piano regolatore di Palermo mise in atto un’illegalità, che solo in seguito si rivelò una grande operazione mafiosa». Pignatone ha rivolto un ringraziamento ai giornalisti, citando il capitolo del libro della Lorenzini scritto dal cronista messinese Nuccio Anselmo, consigliere dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia: «La stampa siciliana è riuscita a rappresentare il problema, in Calabria purtroppo questo non è avvenuto. Lì c’è ancora un cono d’ombra informativo».
Un proprio saluto l’ha dato anche il “padrone di casa”, il sindaco Giuseppe Buzzanca, secondo cui «va capillarizzata tra le gente comune la consapevolezza del fenomeno mafioso. Faccio un esempio: quando ero presidente della Provincia stanziammo un miliardo di lire in un fondo anti-racket a cui avrebbero potuto attingere coloro i quali avessero denunciato di essere sottoposti al pizzo. Ebbene, quel fondo rimase intonso. Ognuno deve fare il proprio dovere, dalla politica alle altre istituzioni, perché più farraginoso è il sistema, anche amministrativo, più è facile il percorso per la mafia». Il classico fuori programma l’ha offerto il pacifista Renato Accorinti, il quale ha voluto gridare con forza: «Questo governo continua a tagliare la cultura ed è proprio tagliando la cultura che si favorisce la mafia».
(in fotogallery altre immagini del dibattito scattate da Dino Sturiale)
