Serata inaugurale dell’Horcynus Festival 2009: si può fare di meglio.

Serata inaugurale dell’Horcynus Festival 2009: si può fare di meglio.

Serata inaugurale dell’Horcynus Festival 2009: si può fare di meglio.

mercoledì 26 Agosto 2009 - 11:49

-Le ragioni dell'aragosta- di Sabina Guzzanti e un monologo di Mariano Nieddu hanno inaugurato la manifestazione

Non entusiasmante la serata di inaugurazione della settima edizione dell’Horcynus Festival 2009 “Arti Mediterranee”. La manifestazione, che legittimamente ambisce ad una risonanza nazionale, ha una vocazione multidisciplinare nelle espressioni artistiche rappresentate e tende ad essere importante crocevia di cultura, intesa come continuo fluire di comunicazione fra popoli. Ma forse ieri sera, a causa di pochi ma significativi dettagli organizzativi, ha perduto un’occasione per mostrare la propria vera essenza al pubblico che ha assistito allo spettacolo.

La serata è stata aperta dalla presentazione del Festival a cura degli stessi organizzatori, nel cortile della Torre degli Inglesi. Il pubblico, circa centocinquanta persone, è stato ospitato in parte nel cortile ed in parte nella saletta interna; purtroppo lo stile comunicativo adottato per la presentazione (nonché l’audio fruibile nella saletta interna) è stato alquanto carente e sicuramente molte delle preziose informazioni fornite per una godibile fruizione della serata sono andate perdute e non recepite dagli spettatori.

Subito dopo la proiezione di un cortometraggio egiziano proveniente dalla collezione inedita di video arte contemporanea arabo-mediterranea di proprietà della Fondazione Horcynus Orca, è stato offerto alla visione del pubblico “Le ragioni dell’aragosta”, un film commedia girato nel 2007 da Sabina Guzzanti, falso documentario su un fantomatico spettacolo a sostegno del ripopolamento di aragoste dei mari della Sardegna. Un ex operaio della Fiat, licenziatosi dalla fabbrica a seguito degli eventi aziendali che indussero i sindacati dei metalmeccanici a cedere su alcuni importanti punti della contrattazione, si è trasferito in Sardegna ed è diventato pescatore di una cooperativa. Incontra la Guzzanti; le racconta le proprie vicissitudini e le narra della crisi della pesca in Sardegna. L’attrice, infiammata dalla causa sociale, chiama a raccolta gli amici con cui non lavorava più da quindici anni, dai tempi del successo televisivo di “Avanzi”, e li coinvolge in uno spettacolo che dovrebbe servire per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul problema della diminuzione del pescato ma che in realtà serve a chiarire agli stessi attori del cast le ragioni della minoranza “pensante” in estinzione in Italia.

Alle 23,00, in ritardo di mezz’ora sulla scaletta originaria, al termine della rappresentazione cinematografica, i sessanta spettatori interessati allo spettacolo teatrale si sono trasferiti sulla ventosa terrazza della Torre, sovrastata dalla oscurata “Torre Eiffel” dello Stretto, per assistere al racconto teatrale “Blu”, interpretato da Mariano Nieddu. Complice lo scirocco che ieri sera sferzava impietosamente, il lento evolversi scenico dello spettacolo e la complessità del testo recitato hanno indotto alcuni degli spettatori ad abbandonare a gruppetti la platea; altri, incuranti del vento o forse più adeguatamente vestiti, sonnecchiavano sulle pur scomode sedie. Alla fine gli applausi della quarantina di stoici superstiti non sono tuttavia mancati.

Peccato! Gran parte del pubblico avrebbe sicuramente apprezzato l’offerta, da parte degli organizzatori, di un supporto esplicativo più efficace che fornisse una chiave di lettura maggiormente chiarificatrice del monologo scritto proprio dall’interprete, l’attore nuorese Mariano Nieddu, insieme con Renata Palminiello, e liberamente tratto dal romanzo di Sergio Atzeni “Il quinto passo è l’addio”.

L’opera narra il viaggio in nave di Ruggero Gunale, il protagonista, dalla Sardegna al continente: viaggio di sola andata, che sancisce l’abbandono da parte del protagonista della sua isola e del suo mondo, e che non ha alcuna meta precisa. Una fuga, più che altro, che lascia però intravedere già in sé un singolare risvolto etnico che possiamo leggere nel testo del monologo che fedelmente cita il romanzo, in cui Ruggero parla a se stesso: -Fuggi. Dopo trentaquattro anni ti strappi alla terra dove hai amato, sofferto e fatto il buffone. Ogni angolo di strada testimonia una tua gioia, un dolore, una paura. In cambio sarò libero. La maschera che mi cuciranno addosso, lo straniero, l’isolano, il mendicante, mi nasconderà, occulterà il nome, sarò uomo fra uomini…-.

Ruggero fugge da se stesso e dalla propria mitezza intesa come inettitudine alla difesa: “La mitezza non incute rispetto né suscita vero compatimento. Anzi: godono a schiacciarti. Sei figlio di puttana e intrighi, spingi e sgambetti, ti fai largo con la forza e l’astuzia e ti rispettano servili, vogliono farti fesso e se li fai fessi ti ammirano, ti imitano. Devi essere veloce nel colpire, regalare cicatrici. Se ti fermi a pensare, perdi il tempo e ti saltano addosso. Resta alla superficie delle cose e sali nella stima altrui”. E poi ancora: “Tu non sei mite. Ora soltanto hai percepito l’esistenza della mitezza. Perché vinto. Sei stato bestia, avida e feroce, finché avevi forza e te l’hanno permesso. Ora ti mascheri da esiliato, nascondendo il nome che per anni hai sventolato quasi fosse un merito. Non hai mai colpito per cattiveria. Per noncuranza, magari, o per cecità. Il nome sparisce, salva per un po’ la lapide in camposanto. E la vicenda presto è dimenticata, cancellata da nuove imprese di tonti e di campioni.”

Così il monologo di Nieddu celebra, con le parole di Atzeni, la sua storia di dolorosa migrazione contemporanea, una rappresentazione dell’alienazione delle nostre anime dai valori fermi che vorremmo interpretare nelle nostre esistenze. Invece i sessanta intrepidi (ma sarebbero dovuti essere di più!), abbandonati al vento dello Stretto, nel tentativo di afferrare un brandello di ricchezza culturale, hanno perso una bella occasione per restare a casa a nanna.

Giovanna Pantò

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