Dalla guerra al terremoto, le ferite degli altri sono anche le nostre

Dalla guerra al terremoto, le ferite degli altri sono anche le nostre

Marco Olivieri

Dalla guerra al terremoto, le ferite degli altri sono anche le nostre

martedì 07 Febbraio 2023 - 08:51

Il sisma turco e siriano, il conflitto in Ucraina e in altri luoghi: le macerie del mondo ci appartengono

Nessuno si senta escluso. Le macerie del mondo ci appartengono. La guerra, i lutti e poi il sisma, altri lutti, altre crepe e crolli. Un terremoto di magnitudo 7.9 ha colpito il sud della Turchia e il nord della Siria. Mentre si scava tra le macerie, in un’immagine che si rinnova puntuale come una maledizione che attraversa i secoli, le fonti giornalistiche aggiornano il macabro bollettino delle vittime, quasi cinquemila morti, destinato a salire. Viene in mente un romanzo potente, “Vite che non sono la mia” di Emmanuel Carrère, e la sua narrazione di una vacanza in uno Sri Lanka colpito all’improvviso dallo tsunami. Una tempesta che sconvolse le coste del Pacifico.

Vite legate da una comune umanità

Noi siamo lontani e vicini, grazie ai mezzi di comunicazione, e possiamo percepire quanto sia drammaticamente reale la tragedia a cui assistiamo davanti ai nostri schermi. Sia nel caso del terremoto turco e siriano, o della guerra in Ucraina o negli altri luoghi del mondo violentati dalle armi, a essere coinvolte sono vite che non sono le nostre ma che lo sono al tempo stesso. Sono vite che appartengono a una comune umanità e che sono legate da un filo sotteraneo e spesso oscuro chiamato storia. I migranti morti per arrivare in Europa sono come i nostri antenati che tentavano la fortuna in America o in altri mondi. I corpi lacerati dalle bombe o sotterrati dalle macerie dovute al sisma sono come quelli dei nostri antenati in fuga dai bombardamenti o dagli effetti distruttivi del terremoto del 1908. Sembra una banalità ma non lo è: c’è un terreno comune, fatto di umanità e forza universale dei singoli tasselli di una storia più grande. E troppo spesso lo dimentichiamo.

Testimoni

Allora, come scriveva Carrère, anche noi giornalisti dobbiamo essere testimoni: “Da sei mesi a questa parte, ogni giorno, di mia spontanea volontà, passo alcune ore davanti al computer a scrivere di ciò che mi fa più paura al mondo: la morte di un figlio per i suoi genitori, quella di una giovane donna per i suoi figli e suo marito. La vita mi ha reso testimone di queste due sciagure, l’una dopo l’altra, e mi ha assegnato il compito, o almeno io ho capito così, di raccontarle”.

Così dobbiamo essere testimoni di tragedie individuali e collettive ma non per assecondare il pietismo, il sensazionalismo o la commozione usa e getta. No, bensì per riconnettere tutti, lettrici, lettori, operatori dell’informazione, a una dimensione più umana che ci permetta di ritrovare il senso di un’umanità a volte perduta. E anche di rintracciare il significato politico, culturale e sociale sotteso a ogni pezzo di vita che s’accumula nel caos del mondo. Un mondo perso dietro una bulimia d’informazione, non tutta di qualità. Avvicinarci a sentire ciò che provano gli altri può aiutarci, invece, a diventare cittadini migliori, più consapevoli. O almeno a provarci. Ripartiamo da qui. Dall’empatia.

2 commenti

  1. Leggendo l’articolo mi sono detto, scrive bene questo e soprattutto dice tutto quello che bisogna dire, sottolineo bisogna, in maniera chiara, elegante ed inequivocabile. Piaccia o no. Perché la verità ci aspetta e ci guarda anche se ci attardiamo in sotterfugi o ci giriamo dall’altra parte. Nel mio commento pensavo di poter aggiungere qualcosa al suo ragionamento ma non ho trovato nulla da aggiungere. Lo condivido totalmente. Ha già scritto tutto lui. Allora ho cercato di scoprire più cose su chi ha scritto l’articolo e, dopo una rapida ricerca sul web, mi sono detto -accidenti, è in gamba questo qua”. Qualcuno penserà che sto scoprendo l’acqua calda ma mi volevo solo modestamente permettere di dire “chapeau” al direttore di Tempostretto Marco Olivieri. E buon lavoro.

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  2. Leggendo l’articolo mi sono detto -è scritto bene, in maniera chiara, elegante ed inequivocabile; ma soprattutto parla di una realtà, una verità che fa male, che talvolta evitiamo ben sapendo che lei ci aspetta e ci guarda comunque, anche se ci attardiamo in sotterfugi o ci giriamo dall’altra parte. Nei miei commenti, solitamente, provo ad aggiungere qualcosa o esporre una mia angolazione dell’articolo ma, in questo non trovo assolutamente nulla. Lo condivido totalmente. Allora, per curiosità, cercando qualche notizia sull’autore, scopro tante cose…….-“Accidenti, è in gamba questo qua!” Con assoluta modestia mi permetto di dire “chapeau” direttore Marco Olivieri, e buon lavoro. L’informazione ha bisogno di verità, anche scomoda, dolorosa e sferzante come quella di questo articolo, il lettore deve solo porgere la guancia.

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