La storia. Il messinese Giuseppe Famà tra diplomazia europea e crisi internazionali

La storia. Il messinese Giuseppe Famà tra diplomazia europea e crisi internazionali

Giuseppe Fontana

La storia. Il messinese Giuseppe Famà tra diplomazia europea e crisi internazionali

domenica 29 Maggio 2022 - 07:08

Una storia lunga sedici anni, partita dallo Stretto, che lo ha portato a viaggiare in vari continenti tra contesti complicati e rischi non indifferenti

MESSINA – Un viaggio lungo, partito quasi sedici anni fa, lo ha portato in giro per il mondo. Un lavoro tra la diplomazia e la politica estera, che lo ha avvicinato alle crisi internazionali di vari continenti, tra l’Europa e l’Africa. Giuseppe Famà è partito da Messina, con un treno e una valigia come tanti ragazzi prima e dopo di lui. Ha studiato, tanto, si è rimboccato le maniche. E poi ha colto le possibilità che gli si sono presentate, con caparbietà e capacità, fino a sbarcare in Europa. La sua formazione internazionalista lo ha portato sempre più lontano fisicamente, ma non sentimentalmente, dallo Stretto.

E se spesso si parla di giovani che vanno via, ma anche di guardare il mondo da nuove prospettive, difficilmente incontreremo una persona più adatta di Giuseppe Famà per farci spiegare cosa significano questi aspetti. Per questo abbiamo raccolto e ascoltato la sua storia, chiedendogli anche il suo punto di vista, da vicino e da lontano, sul futuro di Messina.

Giuseppe, il diploma per te è stato uno spartiacque: lasci Messina e inizia il tuo percorso. Raccontaci come

Treno espresso notte, parte della tratta Agrigento – Milano Centrale, meglio conosciuto come la “Freccia del Sud”, un pezzo della storia d’Italia. Quasi sedici anni fa ho caricato sul treno a destinazione Forlì una valigia grande quanto me e con qualche maglia di troppo – perché al nord “fa sempre freddo”, continua a dire mia madre. La fotografia della mia partenza da Messina è la stessa che ritroviamo sempre più frequentemente negli album di famiglia di molti giovani del sud, purtroppo. Venendo da una famiglia modesta, ero legato a doppio filo alla possibilità di avere un sostegno allo studio e, fortunatamente, ho potuto beneficiare di una borsa all’Università di Bologna, che mi portava a prospettive più incoraggianti di quanto non avrei potuto persino a casa. Ho passato cinque anni prevalentemente a Forlì, sede di un’eccellente facoltà di scienze politiche e relazioni internazionali, e dai primi giorni in quelle aule ho scoperto sia la complessità che la passione per la politica estera.

Dall’Italia “sbarchi” in Europa, poi voli via ancora più lontano: com’è stato girare il mondo per il lavoro che fai?

Non posso ridurre alcune esperienze fondamentali a pochi aggettivi, ma dover vivere in altri paesi è in qualche modo una situazione di apprendimento forzato, di confronto con altre visioni della società e, soprattutto, di comprensione dei propri limiti e delle proprie mancanze. Venendo da una delle generazioni del ritorno all’emigrazione, averlo potuto fare in alcuni contesti estremamente particolari, se non difficili – dal Mali alla Tunisia e alla Libia, prima di tornare a Bruxelles – mi ha permesso di imparare moltissimo. Certo, non è stato tutto positivo. La grandissima asimmetria nelle condizioni di vita con molte delle persone che vivevano attorno a me e i miei colleghi – soprattutto per le condizioni economiche e i diritti di cui godiamo – hanno reso le relazioni con amici e conoscenti all’estero più complesse.

A volte con conseguenze particolarmente estreme: in certi momenti ero parte della comunità di persone sotto l’occhio di alcune frange ostili e violente e, al di là degli episodi più spiacevoli, questo ha avuto un forte impatto su molti aspetti della nostra vita quotidiana in quei contesti. E poi c’è chiaramente un altro ordine di difficoltà che accomuna quasi tutti gli emigrati senza distinzione, ovvero la distanza dagli affetti più cari e, soprattutto fuori l’Europa, il senso di estraneità dal tessuto sociale in cui si è immersi. In diversi momenti, le condizioni sociali hanno avuto decisamente più importanza dei chilometri, anche se personalmente ho avuto molta fortuna.

Qual è la parte più bella e quale la più difficile del tuo lavoro?

Ho avuto il privilegio di lavorare su alcune questioni chiave della politica estera europea da diverse prospettive, sia con le istituzioni europee e il governo italiano, che come analista e responsabile di una ONG – l’International Crisis Group. Seguire alcune questioni critiche nella politica internazionale di oggi – tra cui lo sviluppo della politica estera europea, la diplomazia multilaterale, la prevenzione e la gestione delle crisi, soprattutto nel vicinato UE e in Africa offidentale – mi ha permesso di contribuire in maniera utile su alcuni nodi di interesse generale, anche quando non ne percepiamo le conseguenze in modo immediato.

Basti pensare all’impatto della guerra in Ucraina. Quando riusciamo nel nostro intento, prevenire e limitare le conseguenze di eventi simili ha un grande impatto sulle società che ne sono interessate, e questo è chiaramente un motivo di grande soddisfazione e orgoglio. Al tempo stesso, nonostante nessun individuo in questo mondo possa avere l’illusione di essere determinante in queste dinamiche (in buona misura nemmeno i capi di stato e di governo lo sono), che si sviluppano per una moltitudine di variabili difficili da controllare, è difficile fare i conti con la realtà dei contesti più difficili in cui lavoriamo. Non possiamo rassegnarci alla sofferenza di altri uomini e donne nelle situazioni di crisi – che siano vicine o lontane, come lo Yemen, il Venezuela e l’ Afghanistan. In alcuni casi, tanto più è intenso il nostro lavoro, quanto più è difficile accettare che le difficoltà che dobbiamo affrontare rimangono comunque più grandi.

Quando sei partito dallo Stretto pensavi che avresti intrapreso questo tipo di carriera?

No. Perlomeno non subito. Al di là degli studi, sono cresciuto guardando più alle ingiustizie sociali, la legalità, la gestione pubblica del nostro territorio – di cui purtroppo abbondavano i cattivi esempi – e, anche per il mio attivismo in città, quando pensavo alla politica e l’amministrazione pensavo più alle questioni interne che alle relazioni internazionali. Però la nostra generazione è cresciuta più o meno consapevolmente all’ombra di alcuni shock globali – l’ attacco delle torri gemelle di New York del 2001 e l’invasione in Afghanistan, l’invasione americana dell’Iraq del 2003 – che hanno condizionato il nostro pensiero collettivo, finchè poi non ho fatto studi internazionali, e devo tantissimo all’Università di Bologna per aver deciso di impegnarmi in questo mondo. Ho coltivato un grande interesse per la diplomazia e le istituzioni multilaterali per la sicurezza internazionale, e mi sono laureato poco dopo le cosiddette primavere arabe e lo scoppio della guerra in Libia nel 2001, che ci ha interessato da vicino in tutti i sensi. Da siciliano con una formazione internazionalista, non era più il momento di guardare indietro.

Come vedi, da lontano, Messina?

Messina resterà sempre la mia città e ne sarò sempre legato a doppio filo. Oltre a mia madre, qui ho ancora tanti affetti importantissimi, ed essendoci cresciuto non posso che guardarla con nostalgia. Ma non solo. La città è tornata ad avvitarsi in un declino dal quale sarà sempre più difficile tornare indietro, e questo mi addolora profondamente. Il livello dei servizi di base (soprattutto trasporti, sanità ed educazione), il rispetto dei cittadini per gli spazi e il bene comune, la crescente inclinazione all’illecito e l’illegalità, specialmente nel lavoro, sono dei trend profondamente preoccupanti che dovrebbero essere trattati con priorità assoluta dai governi locali, e con il più ampio coinvolgimento e la corresponsabilizzazione collettiva.

Questo aspetto è essenziale, perché una vittima del degrado è stata proprio la scomparsa del senso di comunità, senza il quale è difficile preservare anche i piccoli avanzamenti che potrebbero essere fatti. Una questione molto grave è l’abbandono delle periferie, che somigliano sempre più a quartieri dormitorio tagliati fuori dai pochi nuclei vitali ed economici della città. Anche loro sono a rischio. Le attività economiche risentiranno presto o tardi dello svuotamento dei patrimoni privati dei messinesi, e questo sarebbe un’ulteriore ferita mortale per il tessuto economico cittadino. Messina galleggia tra l’approssimazione e la visione di cortissimo periodo, una specie di attitudine collettiva all’arrangiarsi. Per invertire la rotta servirebbe una visione coerente per lo sviluppo del territorio che miri a contenere il declino demografico, migliorare i servizi essenziali e catalizzare risorse e investimenti per rafforzare dei settori strategici del territorio.

Cosa ti sentiresti di dire ai giovani che, come te qualche anno fa, devono scegliere se restare o andare via?

Non sono sicuro che tutti ne abbiano davvero la scelta. Credo anzi che per molti sia una vera e propria questione di necessità: emigrare per sfuggire al rischio di non potersi sostentare. A chi può scegliere, non esiterei di lanciarsi in tutte le opportunità di crescita e scambio alla propria portata. A chi pensa a una scelta di allontanamento più permanente, suggerirei però di avere delle aspettative chiare e nette: per quanto la situazione a Messina sia estremamente difficile, emigrare non è garanzia di trovarsi in contesti con prospettive migliori. Anche se la determinazione e l’impegno possono non essere sufficienti, raccomando di guardare tutte le opportunità di sostegno e formazione che abbiamo nel nostro territorio e in Italia. L’UE ha incoraggiato e finanziato una moltitudine di opportunità in questo senso e in alcuni casi è più questione di mancanza di informazioni che non di opportunità. Semmai, suggerirei a chi è già rimasto di pensare davvero al futuro del territorio di vigilare e reagire contro ogni abuso delle risorse investite nel nostro territorio. Se non avranno a cuore i ragazzi e le ragazze che si trovano davanti alla possibilità di emigrare, presto rimarranno in mezzo a un deserto. Dovremmo parlare a loro, più che ai giovani.

Hai mai pensato a come sarebbe stata la tua vita se non avessi lasciato la città?

Lo facevo soprattutto all’inizio. È difficile pensare oggi a una professione diversa, ma avrei senz’altro voluto poter continuare a seguire e incoraggiare giorno per giorno l’attivismo sociale di cui Messina ha più necessità, e che avrebbe anch’esso bisogno di un certo rinnovamento. Col senno di poi, avrei voluto farlo in maniera strutturata, lavorando con altri a sviluppare progetti contro il nostro degrado sociale e per offrire spunti elaborati per lo sviluppo urbano e l’impiego. Ci sono già delle idee di grande valore, ma vanno sostenute e accompagnate con costanza. Probabilmente avrei un bisogno diverso di tenere vicino alcuni affetti. Poi, non mi rendevo conto di quanto mi sarebbe mancato lo Stretto, e spero che in una vita interamente a Messina avrei passato quanto più tempo a contatto col mare. Più in generale, il mio palato palato e il mio colorito ne sarebbero stati sicuramente più felici!

Di Messina si parla spesso come di una città in cui non c’è nulla o rimasta indietro. Tu hai girato il mondo, incrociando culture e società di tipo diverso: per te Messina di cos’ha bisogno?

La narrativa su Messina ha sempre due facce: ce n’è una meno evidente ma radicata nel sentire comune, che non rigetta e anzi si riproduce lo stato delle cose che viviamo, che ci fa arroccare orgogliosamente sui pochi tesori che abbiamo ereditato immeritatamente e che non ci permette di accettare che abbiamo più lezioni da ricevere di quanto non siano quelle da dare. Serve abbandonare l’individualismo estremo su cui ci siamo rinchiusi, riflettere sulle conseguenze dei nostri gesti collettivi – a cominciare dalle pratiche di malgoverno che assecondiamo noi stessi – e ricominciare a progettare e ripensare il futuro la città, senza approssimazione e senza riprendere le solite formule senza contenuto.

Voglio essere preciso: penso che la solita vulgata sullo sviluppo turistico e il rilancio dei beni paesaggistici abbia senso fino a un certo punto. La tutela del paesaggio e delle nostre ricchezze naturali è una questione cruciale di cui abbiamo la responsabilità collettiva, ma non è una visione per lo sviluppo del territorio. Lo stesso vale per il turismo. A differenza della nostra splendida provincia, la città non ha le infrastrutture per essere un polo di attrazione turistica, e lo dimostra il fatto che Messina non beneficia della crescita del settore a livello regionale. Gli amici che ieri sera hanno atteso con me il tram per un’ora e venti agli aliscafi, nel vuoto di attività pubbliche e private, ne sanno qualcosa.

Messina deve tornare a essere il centro dei servizi per la provincia. Deve promuovere le infrastrutture e lo sviluppo di professioni digitali che possano riconnettere i lavoratori al resto del mondo a discapito della nostra collocazione periferica rispetto al mondo che cresce. Deve valorizzare l’economia e la cultura marittima – un patrimonio immenso. Deve accompagnare le iniziative culturali e aprire spazi alla cittadinanza, che altrimenti cerca arricchimento altrove. Deve saper fare sistema e spingere queste priorità per un piano d’investimenti che il territorio non può generare da solo.

Spero si abbandoni al più presto la retorica povera e inconcludente della nostra classe dirigente locale, e che questa sfida sia colta con la massima attenzione, umiltà e impegno dal prossimo gruppo dirigente. Abbiamo passato troppi anni facendo errori su errori; perdere altro tempo potrebbe essere fatale per la nostra città. Confido nei messinesi che hanno voglia di riscatto e in quanti condividono questa prospettiva. Credo nel nostro capitale umano e nella devozione di molti concittadini al nostro territorio, e sono certo che sapranno aprire quante più porte possibili alle energie necessarie a cambiare rotta. È una sfida alla nostra portata.

Un commento

  1. 👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏a questo giovane diplomatico messinese per il suo lavoro e altrettanti 👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏per la precisa,giusta,analisi su Messina …. Oltre ad esprimersi EGREGIAMENTE non ha detto una sola parola fuori posto, ma soprattutto, non ha guardato la città dall’alto in basso per rinnegarla, come fanno parecchi quando vanno via 😤…… TUTTO ciò che ha detto è stato COSTRUTTIVO …..una lezione da imparare , da non dimenticare,ma soprattutto da mettere in pratica da tutti quelli che hanno VERAMENTE a ♥️la città di Messina !

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