"Il traumatismo sociale tra algoritmi e intelligenza artificiale"

“Il traumatismo sociale tra algoritmi e intelligenza artificiale”

Autore Esterno

“Il traumatismo sociale tra algoritmi e intelligenza artificiale”

lunedì 15 Settembre 2025 - 20:30

La psicoanalista messinese Donatella Lisciotto ha raccolto il pensiero del filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag. Uno stimolo alla riflessione

Viene definito “traumatismo sociale” e s’intreccia con “la dittatura” dell’algoritmo, i rischi dell’intelligenza artificiale, le imposizioni della società e gli attacchi alla complessità del pensiero. La parola alla psiconalista messinese Donatella Lisciotto: “L’articolo che segue è l’elaborazione di un’intervista che ho realizzato su zoom col filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag. Il suo pensiero aiuta a comprendere la deriva psichica e sociale che caratterizza il nostro tempo, in particolare taluni comportamenti di adolescenti “indotti” al suicidio dall’uso dell’AI. L’articolo è tratto dal N 1-2025 della rivista scientifica “Interazioni” diretta dalla psicoanalista Anna Nicolò ed edita dalla Franco Angeli. Ringrazio entrambe per il consenso a divulgarla su TempoStretto e Marco Olivieri per avervi dato visibilità”.

Il traumatismo sociale.
Conversando con Miguel Benasayag
Miguel Benasayag, Donatella Lisciotto

Una delle cause di quello che definiamo “traumatismo sociale” consiste, oggi, nella colonizzazione dell’esistenza provocata dalla continua richiesta di funzionamento che la società impone agli individui. Si tratterebbe di un meccanismo funzionale alla produttività, piuttosto che al benessere dell’individuo.
Vorremmo quindi dilatare il concetto di trauma sociale estendendolo oltre le guerre, le pandemie, le dittature, e includendovi quella che si potrebbe definire colonizzazione algoritmica della vita.
È questo un trauma sociale sottilmente e subdolamente abusante, pericolosamente pervasivo nella misura in cui è caratterizzato da un aspetto ancor più perverso di quello riscontrato nel nazismo e nel fascismo, o in altre condizioni di spossessamento di sé e sopraffazione.
Durante l’epoca del nazismo e del fascismo l’individuo, se voleva, poteva opporsi al regime, anche pagando a caro prezzo la propria scelta. La colonizzazione algoritmica, invece, colonizza il soggetto. In questo tipo d’abuso non c’è alterità. Ad esempio, la dittatura militare argentina faceva una paura terribile, ma sapevi chi era il nemico; nella colonizzazione algoritmica, invece, non c’è un nemico individualizzabile, piuttosto il mondo algoritmico si pone come l’unico mondo possibile – non come una rappresentazione o un modello, non come una mappa, ma come il territorio stesso e l’unico possibile. Funzionando in modo totalmente autoreferenziale, il mondo algoritmico non conosce alterità. Il mondo dei corpi diventa, quindi, semplice rumore di fondo, quando non modellizzabile algoritmicamente dall’interno.
Facciamo un altro accostamento: nei campi di concentramento, l’individuo poteva avere, anche solo coltivandola nella sua mente, la libertà di contrastare il sistema, di ribellarsi alle regole anche se obbediva, mentre nella sua intimità riusciva a non essere schiacciato, annullato. L’oppressione subita, paradossalmente, alimentava la complessità del pensiero e la creatività. Lo individuava.
Il traumatismo sociale che si consuma nella contemporaneità contiene piuttosto un aspetto perverso laddove gli individui “desiderano” il trattamento che il sistema offre, lo cercano, ne sviluppano una dipendenza. Mentre nella dittatura c’è una parte della società che deliberatamente si oppone, nella tirannia dell’algoritmico si fa strada sempre più l’accettazione e l’arrendevolezza ad una condizione abusante ricalcando, in un certo senso, l’ottica neoliberista.
L’uomo non può misurarsi contro l’algoritmo e senza accorgersene vive in un’assenza di alterità.
Come si può agire contro una formula matematica, disciplinare, che schiaccia i desideri e ne impedisce la realizzazione, a meno che non li normalizzi?
Si direbbe che l’incontro col mondo digitale – che in taluni casi potremmo definire catastrofico – abbia determinato un mondo volto al puro funzionamento.
A sua volta funzionare ha delle molteplici sfaccettature. Funzionare, quando diventa intollerabile l’impatto con i fatti abusanti, può delinearsi come un modo per neutralizzare l’angoscia esistenziale, per difendersi dalla paura del vivere attraverso il fare, il produrre. Compagine del funzionare, insieme alla produttività e alla risposta proattiva richiesta dalla contemporaneità, è anche la dimensione del divertimento in senso creativo, caratteristica che serve all’individuo ancora una volta per arginare l’angoscia.
In tal senso si potrebbe ravvisare, insieme all’aspetto perverso, un aspetto collusivo dell’individuo col Sistema.

Una società caotica

Stiamo vivendo un’epoca in cui non si prevede l’imminenza di una minaccia dal momento che la minaccia è già in atto. È presente.
Collassi convergenti di varia natura – economica, demografica, politica, culturale – caratterizzano una società caotica dove è impossibile guardare al futuro e fare previsioni su ciò che potrà accadere all’individuo sia individualmente che socialmente.
Il futuro è diventato imprevedibile e chiuso, mentre allo stesso tempo l’individuo è impegnato in un ingranaggio proattivo attraverso il quale è tenuto – e si tiene – in vita. Al contempo coltiva un forte senso d’angoscia per la mancanza di un’attesa, di una previsione, di un’autonomia nella quale il pensiero possa svilupparsi creativamente, piuttosto che imprigionarsi in un’assenza di senso e, dunque, di previsionalità e di continuità.
Si direbbe che oggi l’individuo viva privato di sé e senza una proiezione di sé nel futuro prossimo.
La ricaduta di una società che ha perduto la capacità di proiettarsi nel futuro la si riscontra, ad esempio, nel crollo della natalità registrata sia in Europa che negli Stati Uniti. Oggi le coppie dubitano – non temporeggiano, è diverso – hanno cioè perplessità nel concepire figli, dal momento che esistere è diventato un lusso. Accanto a questo aspetto prettamente economico se ne potrebbe ravvisare un altro di natura intrapsichica dove il rifiuto o la riluttanza a procreare sia una ribellione al sistema, un modo (quanto inconsapevole?) di manifestare il proprio dissenso non partecipando all’incremento della specie umana. Una modalità di autoprotezione, per non concedersi e non concedere, un anelito di autonomia.

L’Intelligenza Artificiale

In un contesto che predilige il puro funzionamento, nasce e prende posto l’Intelligenza Artificiale. A questo argomento così attuale Miguel Benasayag dedica il suo ultimo libro (Chat-GPT non pensa – e il cervello neppure, edito da Jaca Book nel 2024) in cui esplora la pericolosa deriva in cui scivola la società attuale e quella a seguire. Se il cervello delega le sue funzioni agli apparecchi digitali non può, nel corso del tempo, rimanere lo stesso, piuttosto ogni delega di funzioni implica un processo di atrofizzazione cerebrale, sicchè un effetto dell’IA, tra i tanti, è un indebolimento del mantenimento del pensiero complesso. Prende così forma quel processo di colonizzazione accennato all’inizio dell’articolo in cui la delega delle funzioni depotenzia l’individuo financo alla perdita delle sue funzionalità cerebrali.
IA è un segno tangibile e potente del nostro tempo, laddove l’individuo demanda funzioni massive agli apparecchi digitali senza rendersi conto che sta perdendo potere: se una potenza diventa molto grande, come lo è diventato il mondo algoritmico, la cultura non riesce ad addomesticarla, piuttosto avviene una sopraffazione.
Esposto e sopraffatto da quello che abbiamo definito “traumatismo sociale” – dalla quantità e dalla qualità di eventi cruciali che si susseguono con una velocità imprevedibile e, spesso, accompagnati da un’incongruenza che disorienta, e assediato sempre più dalla spinta aberrante a funzionare – l’individuo può cedere al bisogno di demandare alla macchina, di mettere la propria mente in pausa. Ricorrere all’IA, o più in generale ai dispositivi digitali, può facilitare la vita dell’individuo, può distrarlo, alleggerirlo e può persino divertirlo, tuttavia questo atteggiamento è configurabile come una modalità di difesa molto rischiosa.
In un mondo senza complessità, in cui l’individuo per trovare soluzioni e risparmiare il pensiero dà fiducia all’IA, è molto pericoloso mandare il cervello in pensione. Al contrario, piuttosto che delegare sempre più spesso le nostre funzioni, bisognerebbe far sì che si sviluppino capacità in parallelo.

Prendere il tempo

In questo contesto, il tempo è un argomento cruciale. Esiste una differenza sostanziale tra prendere il tempo e perdere tempo.
Oggi, se non produci, sei indotto a pensare che perdi tempo.
Anche lo psicoanalista è convocato a misurarsi con tale condizione. Molti pazienti richiedono una terapia per funzionare meglio, ma se li si vuol curare bisognerebbe avere il coraggio di dire che il nostro lavoro consiste nel permettere loro di appropriarsi del proprio tempo – il cui ritmo è per ognuno diverso e originale – di resistere alle sollecitazioni esterne ed aprire uno spazio di esistenza. Se, oggi, l’individuo è troppo traumatizzato per poter pensare, bisogna aiutarlo a lavorare psichicamente affinchè resista alle spinte di una società che impone un’accelerazione a cui egli adempie acriticamente. Il tempo dell’uomo in realtà è diverso da quello della macchina. A differenza di questa, per imparare, per capire, per riflettere, per sentire, l’uomo e la donna hanno bisogno di rispettare il proprio ciclo temporale.
Le nuove generazioni sono quelle più esposte alle richieste performative della società e di un sistema economico e politico proattivo e accelerato volto a garantire la massima produttività.
A cominciare dai bambini. È, infatti, diffuso l’uso scriteriato dei dispositivi digitali in tenera età che facilita la dipendenza e l’addomesticamento. Crescono in tal modo generazioni di persone facilmente controllabili poiché dipendenti e prive dell’allenamento alla complessità. Bisognerebbe piuttosto difendere i bambini dall’esposizione continuativa ai tablet di vario genere, aiutarli a strutturarsi limitando il processo massivo di delega delle funzioni mentali sin da piccoli.
Significativo e per certi versi salvifico sarebbe rivalutare il senso del tragico, così come è inteso nell’accezione greca. L’uomo è cioè “toccato” da tutto ciò che accade, tutto lo convoca e, al contempo, non può padroneggiare tutto, non può capire tutto, non può ragionare su tutto, è verosimilmente soggetto alla potenza di stimoli che non può dominare.
La modernità ha invece prodotto l’illusione che se le cose vanno male è perché qualcuno ha sbagliato qualcosa. Del resto la teoria cognitivista afferma che il cervello deve trovare la condizione ottimale per non sbagliare mai. Tutto questo è un terrorismo molto pericoloso, dal momento che spinge i più giovani ad essere sempre più simili ad una macchina, e come una macchina produrre. Persino la notte molte persone restano connesse ai dispositivi digitali che non spengono mai, come fossero le loro coscienze sempre attive e pronte. Nell’epoca dell’addiction bisognerebbe piuttosto riconquistare spazi per “stare” dentro i tempi del vivente e della cultura, e come terapeuti aiutare il paziente a conoscere le pause che gli sono necessarie, gli sbagli in cui potrà incorrere, le incertezze e i dubbi, la noia e l’arrendevolezza.
Torna l’importanza del senso del tragico in cui ogni essere umano ha la propria singolarità, ha una falla strutturale che tuttavia non è una deficienza tecnica. Questa complessità permette di ritrovare e apprezzare il senso tragico del vivere in cui non esiste la possibilità di un rapporto univoco con il mondo e con l’oggetto.
Una delle imprese del futuro è scagionare l’individuo dalla possibilità di sbagliare, recuperare la sua fallibilità potrebbe restituirgli quel senso di autonomia e di respiro sacrificati dalle richieste di funzionamento e di efficienza.

La vecchiaia

A questo proposito riveste un posto rilevante quella condizione della vita che chiamiamo vecchiaia.
Disgraziatamente la vecchiaia nel nostro mondo è vista come perdente. Si perde la potenza!
Oggi ci sono molti “vecchi” e pochi “anziani”. Manca quella fascia di popolazione che porta avanti, in senso tribale, la trasmissione. Quello che è esistito e quello che esisterà.
Ancora una volta la società si depotenzia e si depriva di una funzione narrativa senza la quale il mondo diviene astorico. La trasmissione trasmette, per l’appunto, una struttura antropologica, psichica, culturale. Oggi piuttosto alla trasmissione si è sostituita l’informazione.
Chagall nell’inchiostro Giorno di festa. Rabbino con limone ritrae l’immagine di un rabbino che porta sul capo un altro rabbino, più piccolo. Il significato di questa raffigurazione rimanda alla trasmissione transgenerazionale, laddove il rabbino più piccolo subentra a quello più grande e porta avanti la storia che gli viene consegnata – nel bene e nel male. Il predecessore porta in capo il successore, stiamo parlando dell’esercizio di una funzione che contempli la trasmissione della conoscenza. Nell’attuale contesto informativo o informatico, gli anziani nella nostra società, contrariamente al rabbino di Chagall, quasi non hanno più alcuna funzione. Per sopravvivere all’anomia e all’esclusione fanno finta di essere giovani, cercano – spesso con affanno – di seguire il tempo imposto dalla società proattiva, usano – spesso con difficoltà – i dispositivi digitali di ultima generazione, si cimentano appresso alle app – applicazioni di vario tipo – il cui accesso permette il riconoscimento della loro stessa identità.
Si tratta di dispositivi che, attraverso un complicato sistema di accesso in cui codici e password sostituiscano il nome della persona, autorizzano il riconoscimento della persona. Riconoscimento che avviene esclusivamente attraverso un’operazione che prevede un’identità “scambiata” con combinazioni fantasiose di numeri, lettere e simboli.
In una parola, se non sei riconosciuto digitalmente, non esisti!
Stiamo dunque parlando di una società di esclusione in cui tutti coloro che non riescono a funzionare con rapidità sono sovrannumerari.
È “in-utile” chi non ha accesso ai servizi di ordinaria amministrazione, chi non è veloce, chi non produce più, chi temporeggia. Si sviluppa così in talune persone un vissuto di disabilità accompagnato anche da un senso di solitudine dal momento che viene messa in crisi la possibilità di esistere, di contro coloro che sono “dentro” al sistema pagano il prezzo di uno stress permanente.

L’utopia

Ma in una società formattata, che posto occupa l’utopia? …o meglio, c’è ancora posto per l’utopia?
Benasayag definisce l’utopia “il cammino”.
L’inconscio occupa anche in questo caso un ruolo dirimente: «Una funzione o tra le funzioni dell’inconscio è quella che ci sprona a intraprendere un cammino, che ci induce verso qualcosa» (Benasayag, comunicazione personale).
Potremmo dunque definire inconscio utopico quello ci sprona verso un cammino.
Tutto quello che accade oggi è lineare, consiste cioè nell’andare dal punto A al punto B. Contrariamente a questo, l’inconscio utopico gode di una pre- visione, cioè di una visione delle cose al di là della loro visibilità. Ciò comporta essere attrezzati ad essere flessibili e accogliere la complessità, dimenticare il punto B, o inventarlo, o fantasticarlo.
Oggi questo non è ben visto. Recuperare il senso dell’utopia è un modo per ciascuno di noi di riscattarsi rifiutando l’ideologia maggioritaria, ufficiale, quella dell’utilità della performance.
Questo necessita, tuttavia, di un certo lavoro sia individuale che sociale, un traguardo impegnativo volto a recuperare un certo spazio per una pensabilità che favorisca una pratica dell’utopia che sia anti-utilitarista e anti-efficace.
Si tratta di un lavoro di resistenza che non si può ottenere individualmente, ma che prevede la condivisione. Solo in gruppo si può essere più efficaci per ostacolare la portata del traumatismo sociale. E, del resto, si tratta di un’operazione che interesserebbe non la singola persona di una singola realtà, di una singola territorialità, quanto piuttosto un’operazione appannaggio dell’umanità. Per fa questo è necessario dunque essere uniti e resistenti.
Quando l’Io si pensa separabile dalla situazione, qualunque essa sia, produce un’illusione traumatica.
Di straordinaria potenza le parole di Borges, citate da Bensayag, che spiegano quest’ultimo concetto: «è la porta a scegliere, non l’uomo».
Se è la porta che fa entrare in una certa situazione – di colpo mi sono trovato dentro una situazione! – l’unico e più grave effetto traumatico di talune situazioni è quello di non assumerla, di “litigare” con la condizione in cui ci si viene a trovare.
L’individuo dovrebbe essere in grado di farsi carico delle situazioni che si presentano, soprattutto quelle che non ha scelto. Un’ulteriore causa di traumatismo sociale è, infatti, continuare a vivere nell’illusione che si possa scegliere la condizione in cui vivere, piuttosto che resistere alla condizione in cui si vive.
In talune occasioni il trauma non è dato dalla gravità della situazione in sé e per sé, ma dall’atteggiamento di contrastare quello che Benasayag definisce il casting situazionale.
Il messaggio sarebbe dunque quello di resistere uniti – non colludendo con le situazioni traumatiche poste in essere dalla società, piuttosto occupandosi di una manutenzione della mente continua e attiva per difendere la complessità del pensiero.

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