Il bimbo naufrago e le pagelle dei nostri figli cucite nella giacca della vita

Il bimbo naufrago e le pagelle dei nostri figli cucite nella giacca della vita

Rosaria Brancato

Il bimbo naufrago e le pagelle dei nostri figli cucite nella giacca della vita

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domenica 27 Gennaio 2019 - 08:31
Migranti di ogni terra

Ha lasciato sgomenti tutti la storia del piccolo naufrago morto affogato nel canale di Sicilia con una pagella di scuola cucita nella giacca. Aveva 14 anni, proveniva dal Mali, è morto nell’ecatombe del 15 aprile 2015 al largo delle nostre acque: oltre 700 dispersi, 58 cadaveri ritrovati. Il medico legale Cristina Cattaneo che nel libro “Naufraghi senza volto” ci ricorda le tragedie del Mediterraneo ha raccontato anche questo particolare. Tutti abbiamo immaginato le cure amorevoli della madre che cuciva la pagella del bambino nella giacca, vestendolo nel modo più adatto per un viaggio verso un futuro che non ha avuto. Per lei, per il figlio, quella pagella era una carta d’identità. Invece noi italiani abbiamo chiuso il cuore ai figli dell’Uomo e quel quattordicenne è annegato al largo della Sicilia.

Questa storia mi sgomenta e non soltanto perché abbiamo perso ogni briciola di umanità, proprio noi italiani, popolo di migranti e che oggi celebriamo la Giornata della Memoria. Non solo per questo nostro incattivirci.

Mi ha colpito per le analogie tra la mamma del Mali e le mamme siciliane.

Migliaia di mamme e papà siciliani non hanno nient’altro da dare ai propri figli nel viaggio verso la vita se non quel pezzo di carta che assume un valore immenso in una società che umilia il merito: sia la pagella, il diploma, la laurea, il master.

In quella pagina, in quella pergamena c’è tutta la vita di una famiglia, c’è tutta la vita passata e futura, c’è la carta d’identità di una comunità.

Noi non la cuciamo nella giacca, perché la miseria e la paura non hanno lo stesso aspetto infernale di quei Paesi. Ma è il nostro biglietto da viaggio. Non sappiamo cosa aspetta i nostri figli, quale accoglienza, quale ospitalità, ma nel nostro cuore speriamo che quella “pagella” messa in valigia, conservata in pdf nel telefono, inviata via mail insieme al curriculum a centinaia di indirizzi, possa avere un valore e aprire quelle porte che al Sud sono chiuse.

Noi mettiamo nella valigia dei nostri figli la stessa segreta speranza che ha messo la mamma del ragazzo del Mali cucendo la pagella nella “giacca buona”, mandando il proprio figlio, come ci dice Gibran “come una freccia viva avanti nel mondo” giacchè “i vostri figli non sono figli vostri, sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita”.

Come quella mamma preghiamo ogni sera affinchè un qualsiasi dio vegli su di lui e non lo faccia naufragare nei mari della vita.

Noi siamo come quella madre. E il quattordicenne con la giacca imbottita di sogni e speranze è nostro figlio. Ci sono tante ovvie differenze, ma il cuore è lo stesso.

Una delle differenze è che i nostri figli sono nati nel secolo “giusto”, perché se fossero nati nel secolo scorso o un po' più indietro nel tempo, le pagelle le avremmo cucite davvero nelle giacche e messe nelle valigie di cartone ed imbarcato i nostri figli nelle navi dirette in America, in Argentina. E avremmo pregato ogni sera perché non esistevano cellulari né skype e non avremmo saputo nulla di lui. Sarebbe potuto affogare. Con quella pagella accanto al cuore. La differenza è che, nonostante tutto, nonostante le quarantene ed Ellis Island, l’America avrebbe aperto i porti a nostro figlio.

Ho letto nei giorni scorsi fiumi di polemiche sullo spot della Conad con la mamma che mette in valigia del figlio in partenza generi alimentari di vario tipo. Il ragazzo s’innervosisce, ma arriva il padre che gli regala la carta prepagata della Conad che si può usare in qualsiasi parte del mondo. Le polemiche erano legate alla figura della madre che viene dipinta come le vecchie mamme che caricavano di braciole le valigie dei figli siciliani (e comunque lo fanno tutt’ora).

Al di là della polemica c’è un dato: quello spot nasce da una realtà. Altrimenti nessuna società di comunicazione lo avrebbe realizzato. Il dato è quello. Nelle valigie possiamo anche metterci la carta spesa pre-pagata e la laurea, ma la realtà è quella.

Ognuno di noi accompagna i figli a scuola, li segue per i compiti, li incoraggia nei momenti difficili, li consiglia quando non sanno quale indirizzo prendere o non immaginano un futuro. Quando portano a casa la pagella, il diploma, la pergamena di laurea, siamo orgogliosi di loro e loro sono fieri dei risultati ottenuti, piccoli o grandi che siano. In quel foglio c’è l’intera vita di una famiglia, presente e futura. E’ frutto di relazioni umane profondissime, di amori sconfinati, di sconfitte, battaglie, vittorie.

Purtroppo quei fogli di carta si trasformano in “passaporto” perché i nostri figli sono nati alla periferia dell’impero. Allora ci armiamo di coraggio e sorridiamo e li incoraggiamo quando gli cuciamo questi fogli nella “giacca della vita” e diciamo “va figlio mio, guadagnati la vita”.

Sorridiamo e cerchiamo di dar loro quel coraggio che in fondo al cuore non hanno. Perché avranno paura di affrontare il mondo fuori, anche se per arrivarci useranno l’aereo (pagato a peso d’oro), il treno, la nave e non un gommone.

C’è sempre la paura del “naufrago” in chi emigra e non sa chi troverà dall’altra parte della riva. Si possono fare a pezzi le pergamene di laurea in mille modi e non sempre con le mani, ma con i comportamenti e le umiliazioni. Quel diploma può diventare carta straccia senza bisogno di finire nel canale di Sicilia.

Ecco perché mi sgomenta la storia del ragazzino del Mali affogato con la pagella al petto. Perché non ha trovato nessun mamma dall’altra parte della riva, nessun papà, nessuna comunità pronta ad accoglierlo. Perché abbiamo tradito le speranze di quella famiglia, speranze troppo simili alle nostre.

In un mondo sempre più chiuso e cattivo potrebbe accadere ai nostri figli di non trovare nessuno dall’altra parte della sponda. O peggio, di non poter attraccare e di restare nel mare della disperazione fin quando non arriva l’ondata mortale.

Non ti conosco figlio del Mali, non conosco tua madre, ma il vostro dolore è universale e la vostra pelle l’ho sentita come mia.

Nella Giornata della Memoria dell’Olocausto è anche questo il messaggio: chi si volta dall’altra parte, chi fa finta di non vedere si fa complice. Sempre.

Rosaria Brancato

Un commento

  1. bellissima riflessione. Complimenti

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