Certo che m'arrabbio

Siamo tutti “shoppingari” con i diritti calpestati degli altri

In realtà basterebbe il buon senso, ma l’Italia è diventata il Paese delle crociate, del tutto bianco o tutto nero, dei Guelfi e dei Ghibellini.

La querelle sull’apertura dei negozi nei festivi deve tenere conto di un duplice aspetto. Da un lato lo spazio della vita, quello da dedicare al riposo, alla famiglia, al piacere del tempo libero. Dall’altro la necessaria tutela dei diritti dei lavoratori. Sono due binari che non sempre restano paralleli, spesso s’incontrano.

Invece è fin troppo facile essere “shoppingari” con i diritti calpestati degli altri, progressisti e moderni con le buste paga degli altri.

Il 25 aprile, a Messina, i sindacalisti della Filcams Cgil ed i lavoratori della Coin hanno distribuito volantini con scritto “La festa non si vende”. Quanti li hanno letti? Quanti hanno letto le motivazioni delle proteste dei sindacati o quelle della Conad che nei giorni festivi chiude?

E’ chiaro che qui non si parla delle località turistiche né delle attività tipicamente stagionali o turistiche o del periodo natalizio. Stiamo parlando di una decina di giorni su 365 l’anno e su 66 ore settimanali a disposizione per lo shopping dal lunedì al sabato.

Io sono vintage e non passerei mai un 1 maggio o il 25 dicembre in un centro commerciale. Ho sempre guardato con rispetto ed amarezza le cassiere e i cassieri dei supermercati che la sera del 24 o 31 dicembre sono ancora lì, inchiodate alla cassa per colpa di quei clienti irriguardosi che hanno atteso le 20 per la spesa.

Partendo dal presupposto che la normativa dovrebbe basarsi sul buon senso, penso che alla base di tutto deve esserci il rispetto della vita, dei diritti e dei valori di una comunità che non è fatta di acquirenti ma di persone.

E’ triste vedere che durante le cosiddette “feste rosse del calendario” mentre si affollano i centri commerciali e le vie dello shopping si svuotano non solo le Chiese, ma i musei, i siti storici e culturali, i posti panoramici, i punti di ritrovo.

Da un lato c’è una comunità che ha smarrito la voglia di “essere comunità”, di trovare il tempo per stare con le persone più care, siano gli amici, la famiglia allargata, il club del burraco, gli ex alunni della 3E, il gruppo whatsapp del calcetto. Dall’altro, smarrendo questi valori ha prevalso l’indifferenza al profondo malessere altrui.

Chi non sa perché i lavoratori e i sindacati protestano è disinteressato al fatto che entrare in un negozio il lunedì di Pasqua per curiosare tra scarpe e pantaloni, equivale, soprattutto al sud, ad una compressione dei diritti e delle tutele del lavoratore.

Per consentirti di provare 10 paia di occhiali che con ogni probabilità (stando ai dati raccolti) non comprerai perché stai facendo uno “shopping scaccia-pensieri”, c’è un commesso che non si vedrà pagato alcun straordinario. Al massimo, se è fortunato, avrà recuperato il turno durante la settimana.

Allo stesso modo, mentre si affollano i centri commerciali, pochissimi partecipano agli eventi organizzati da decine di associazioni messinesi per scoprire storia, patrimonio, tesori artistici, culturali e paesaggistici di Messina.

Trascorrere una domenica con i figli per una partita di calcetto, un giro per ricordare chi erano i nostri antenati o scoprire che i limoni crescono sugli alberi e non dentro i vasetti di vetro, non ha prezzo. Per una passeggiata in riva al mare, a discutere con un pescatore, leggere un libro, ascoltare musica o semplicemente ad osservare il cielo piuttosto che il soffitto altissimo di un edificio non serve una Mastercard.

Noi non siamo quello che guadagniamo o quello che possiamo spendere. Non siamo quello che compriamo, non siamo i nostri abiti, le nostre borse. Noi siamo altro. Deve esserci un momento in cui spogliamo di tutta l’esteriorità e la dedichiamo al tempo della nostra vita, della nostra cura. Altrimenti cosa lasciamo ai nostri figli? Un telefono per dare risposta a tutte le loro domande? La Bibbia del selfie nel reparto degli intimi?

Tra i tanti commenti che ho letto riporto quello di Alessandro Geraci, consigliere del III quartiere: “Tenere le attività commerciali aperte durante i festivi è deleterio per i dipendenti, per i proprietari e per i consumatori. Restare aperti 7 su 7 , quando i contratti di lavoro prevedono 6 su 7 significa riuscire a fare una turnazione che non tutte le attività commerciali riescono a fare. I giorni festivi portano pedonabilità e pochi acquisti di qualità. Questo comporta un notevole calo di margini e il rapporto scontrino/ingressi si abbassa rovinando il lavoro certosino fatto durante la settimana. Più personale impieghi nei festivi maggiori saranno le fasce orarie scoperte, comportando un calo della qualità del servizio offerto al cliente durante la settimana. I negozi medio piccoli si ritrovano più dipendenti frustrati e stanchi e senza avere un reale margine in cassa. In molti paesi europei nei festivi le attività commerciali sono chiuse i cittadini si dedicano ad altro: gite,cultura,tradizioni,cinema,teatro,famiglia,sport”.

I dati attestano che dopo la liberalizzazione selvaggia non c’è stato aumento di consumi né di occupazione.

Alcuni anni fa, con mio marito e mio figlio siamo andati una domenica alla Valle dei Templi ed alla casa di Pirandello. Al rientro loro hanno voluto fare una sosta nel più noto e gigantesco centro commerciale del centro Sicilia. Io ho preferito aspettarli per un’ora e più nell’auto parcheggiata, leggendo.

A distanza di anni nei nostri cuori ci sono le ore trascorse tra i Templi a respirare storia ed arte. Di quei calzini e delle magliette comprate quel giorno è rimasto poco, anche perché li ho scoloriti in lavatrice alcune settimane dopo.

Rosaria Brancato