"L'isola delle lacrime". Ieri ed oggi, il racconto di Giuseppe Quattrocchi

“L’isola delle lacrime”. Ieri ed oggi, il racconto di Giuseppe Quattrocchi

“L’isola delle lacrime”. Ieri ed oggi, il racconto di Giuseppe Quattrocchi

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sabato 30 Giugno 2018 - 05:34

"Appena attraccati cominciarono le operazioni di sbarco, era una babilonia di lingue e di dialetti"

Eravamo in tanti. Io ero schiacciato al parapetto, tutti volevano vedere e quando la costa improvvisamente comparve all’orizzonte, sbucando da una coltre di nubi tinte dai primi colori dell’aurora, il mio cuore ebbe un sussulto, per un attimo pensai che volesse fermarsi.

Ero cosi felice che non smisi di guardare quella linea di terra che si avvicinava e diventava sempre più spessa. Quando fummo più vicini, dovetti stringere le palpebre affinché il primo sole del mattino, ancora basso sull’orizzonte, non infastidisse la vista. Non volevo perdere un attimo di quel nuovo mondo che si apriva davanti a me.

Appena attraccati cominciarono le operazioni di sbarco.

Uomini in divisa ci fecero scendere dalle passerelle, che dalla fiancata della nave portavano alla terra ferma e ci condussero in un grande stanzone pieno di poveracci come me.

Le famiglie divise durante lo sbarco, cercavano di riunirsi chiamandosi a gran voce. Era una babilonia di lingue e di dialetti.

Ci incolonnarono e lentamente cominciammo ad avanzare verso grandi tavoli pieni di carta e libri sui quali gli uomini, seduti dietro, scrivevano. Erano uomini dalla pelle bianca come il latte e i capelli chiari come l’erba secca della mia terra, loro ci fotografavano come se fossimo delinquenti, ci facevano domande in una lingua a me incomprensibile. Vidi un uomo che assomigliava a mio padre, faceva da traduttore agli uomini dietro il tavolo. Era basso di statura, capelli neri e ricci, l’uomo a lato invece, aveva un camice bianco e lo sovrastava di una testa. Rideva con gli altri e indicava nel mucchio. Di sicuro ridevano di noi. Uno di loro aveva la faccia piena di puntini rossi lo stesso colore dei capelli e rideva di gusto senza trattenersi, mentre un suo collega indicava una donna anziana appoggiata al muro avvolta nel suo abito nero. Chiesi all’uomo che parlava la mia lingua cosa dicessero e perché ridevano.

Zitto non fare reazioni, mi disse, non fare capire che sto traducendo i loro discorsi, continuò, dicono che puzzate, che siete piccoli e deformi, che avete bocche larghe e sdentate. Che le vostre donne non hanno nulla di femminile e attraente. Qui si dice che non avete voglia di lavorare e che oziate agli angoli delle strade sporcandole con i vostri rifiuti e che per vivere fate chiedere l’elemosina ai bambini. Stai attento, prosegui con fare benevolo, qui la gente è diffidente e non ama chi è diverso.

Quelli in camice bianco lo chiamarono e lui mi diede una spinta. Ritorna in fila, mi disse, ammiccando con un sorriso, forse non voleva farsi vedere che familiarizzava con un emigrante.

Nella fila accanto a me, una donna con due bimbi attaccati alla lunga gonna nera sembrava infastidita dalle richieste di un omone in camice bianco. L’uomo cercava di farsi capire a gesti e la toccava sulle spalle e sulla testa, cercando di toglierle la stoffa nera che le copriva il capo. Il traduttore si avvicinò e parlò alla donna in modo irato. Sentimmo urlare, sembrava che gridassero, ripetendolo un nome e la donna volse il capo agitando le braccia e gridando qualcosa in un dialetto che non capivo bene. Un uomo arrivò di corsa e l’abbraccio, poi s’inginocchiò abbracciando i due bambini e alzandosi da terra, prese il più piccolo in braccio. Lei disse qualcosa all’orecchio dell’uomo, il quale assentì. La donna si parò di fronte all’omone in camice, timidamente scopri la sua testa. A capo chino, come se subisse rassegnata una qualche violenza, si fece toccare il viso, guardare in bocca e dipanare i capelli con un grande pettine dai denti larghi. Adesso capivo, quelli dovevano essere dottori e facevano una ispezione sanitaria. Esaminarono la testa della donna e poi quella dei bambini per vedere se ci fossero pidocchi, poi toccò a quello che doveva essere il marito. Finita la procedura, attaccarono dei cartellini sulle vesti e li fecero passare dietro ai tavoli, dove altri emigranti aspettavano pazientemente il da farsi.

Quando raggiunsi il gruppo in attesa, rimasi vicino a quella famiglia della quale avevo seguito le vicissitudini.

Ero solo io. Non avevo Nessuno. Ero partito con un mio cugino, in cerca di fortuna. Lui era scomparso durante il viaggio. Non so come, ma non fu il solo a sparire prima della fine della traversata.

A casa mia la miseria era tanta. La terra asciutta, l’acqua poca, il raccolto scarso. C’erano prepotenti che la facevano da padrone e con la paura piegavano la gente al loro volere.

La guerra aveva portato via i miei tre fratelli.

Mio padre e mia madre non volevano che partissi ma mi diedero i pochi risparmi che avevano da parte e con quei soldi mi pagai il viaggio. Se avessi avuto fortuna avrei scritto loro di raggiungermi.

In fondo allo stanzone una porta affacciava su uno spiazzo, da un lato delimitato dalla cancellata in ferro battuto che divideva da una strada trafficata come non avevo mai visto e dal lato opposto, dalle gru che correvano sui binari della banchina del porto.

In mezzo stava montata una grande tenda con militari di guardia. Davanti alla tenda un tavolo e alcune donne in divisa con una croce rossa disegnata sul petto, che distribuivano alla gente in fila un pane bianco gonfio e morbido che così non avevo mai visto e una tazza di latte caldo.

Aveva un gusto strano quel pane e il latte invece era dolciastro, non lo avevo mai bevuto cosi, ma era caldo e in quella mattinata fredda andava bene.

Adesso il sole era pallido e il vento freddo che veniva dal mare tagliava la pelle come fossela lama di un coltello. Battevo i piedi per terra, cercavo di riscaldarmi. I miei abiti erano leggeri per quella temperatura.

Dietro ai cancelli molti uomini chiamavano facendo segno di avvicinarci. I militari di guardia facevano finta di non vedere e io mi avvicinai per sentire cosa volessero. Alcuni parlavano la mia lingua , magari dialetti diversi dal mio, ma li capivo. Erano vestiti bene e sicuramente mangiavano tre volte al giorno. Gli occhi erano quelli di un rapace pronto a ghermire la preda. E quella ero io.

Qual è il tuo nome, che lavoro sai fare? Dicevano.

Salvatore Agnello sono. Bracciante, ma so fare di tutto. Mettetemi alla prova. Risposi speranzoso.

Fra il 1880 e il 1915 nove (9) milioni circa di italiani emigrarono e scelsero di attraversare l'Oceano per raggiungere gli stati del nord e del sud delle Americhe. Di questi quattro (4) milioni di italiani emigrarono negli Stati Uniti.

Circa il settanta per cento proveniva dal Meridione, anche se fra il 1876 ed il 1900 la maggior parte degli emigrati era del Nord Italia ,da Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte. L'arrivo in America era caratterizzato dal trauma dei controlli medici e amministrativi durissimi, specialmente ad Ellis Island, a New York, ribattezzata dagli emigranti, l'Isola delle Lacrime.

Giuseppe Quattrocchi

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