Terrorismo, integrazione, dialogo. Intervista a Paolo Branca

Terrorismo, integrazione, dialogo. Intervista a Paolo Branca

Giacomo Maria Arrigo

Terrorismo, integrazione, dialogo. Intervista a Paolo Branca

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domenica 27 Ottobre 2019 - 08:03

Intervista all'islamologo prof. Paolo Branca (Unicatt) su terrorismo, integrazione e dialogo.

Paolo Branca è professore di Islamistica e di Lingua e letteratura araba presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È una figura centrale nel dibattito sui rapporti tra Islam e Cristianesimo, nonché esperto della relazione (non sempre lineare) della religione islamica con la modernità.

Il clamore mediatico suscitato dai grandi attacchi terroristici degli anni passati è adesso attenuato e quasi scomparso. Gli stessi attentati sembrano essere diminuiti drasticamente. È questo forse un segnale che la follia jihadista di al-Qa‘ida e dell’ISIS stia scomparendo?

Purtroppo no. La relativa disgregazione di queste sigle lascia il campo ai cosiddetti ‘lupi solitari’ che sono per certi versi ancor più insidiosi perché poco prevedibili e più difficili da prevenire in società aperte e quindi non militarizzate.

L’integrazione è senz’altro un metodo sicuro, quantunque lento, di assorbimento della carica di risentimento che certi soggetti immigrati potrebbero coltivare. Insomma, la radicalizzazione nasce (non solo ma anche) da esperienze di esclusione, cosa che potrebbe essere prevenuta da una rete sociale solida e accogliente.

Una rete di accoglienza di fatto già esiste ed è ben rodata nel far fronte alle emergenze tipo un pasto, un letto, abiti o medicinali… Se però si passa alla questione della regolarizzazione delle presenze mediante rapporti di lavoro ufficiali e garantiti almeno dal punto di vista previdenziale e antinfortunistico si passa nell’immensa zona grigia del caporalato e della marginalizzazione ad oltranza che può anche essere un’incubatrice di risentimento. Non mi pare tuttavia che in Italia si sia mai passati da questo ad atti terroristici, mentre è ben diversa la situazione delle periferie francesi.

Lei è d’accordo con il termine “integrazione”? Oppure sarebbe meglio usare altri termini quali “inclusione” o “accoglienza”?

Preferirei ‘interazione’, senza la ‘g’. Di fatto c’è, se si pensa ad esempio che nei mille oratori milanesi il 25% degli utenti sono ragazzi e ragazze musulmani, ma non fa notizia ed è come se non facesse alcuna differenza. Prova ne sia che ogni anno a Natale ci dobbiamo sorbire pagine e pagine di giornali su qualche preside bizzarro che decide di non fare il presepe a scuola con la scusa del rispetto verso l’Islam, il quale però celebra il concepimento verginale di Maria e la nascita di Gesù (profeta, non figlio di Dio) persino nel Corano.

A che punto siamo in termini di integrazione? Mi riferisco al quadro italiano. Non mi risulta che gli italiani siano un popolo razzista o intrinsecamente intollerante, ma a volte – questo sì – i toni si alzano un po’ troppo.

È una deriva recente che corrisponde a un imbarbarimento della comunicazione anche politica un po’ dappertutto: leader come Trump e i suoi omologhi occidentali ma anche orientali (vedi Erdogan) hanno sdoganato un linguaggio aggressivo se non brutale che in precedenza non sarebbe stato immaginabile. Quando ero un ragazzo le trasmissioni Rai proibivano l’utilizzo del termine ‘piedi’ suggerendo di preferirgli ‘estremità’. Da questo punto di vista siamo decisamente peggiorati.

Il “tortellino dell’accoglienza” con carne di pollo al posto del classico ripieno di maiale è diventato un caso nazionale. A riprova che non bisogna toccare il cibo agli italiani. Ma rivela anche che ci sono da più parti resistenze a una convivenza pacifica. È così?

La pappa della mamma, come la squadra del cuore, sono gli ultimi bastioni su cui si accanisce chi un’identità non ce l’ha più e per questo ha paura di ogni ‘diversità’. Una battaglia di retroguardia che inasprisce i toni senza aggiungere alcun contenuto sensato e utile ad alcunché.

La “convivenza culinaria” è certo insignificante rispetto alla convivenza religiosa, cioè alla coabitazione e coesistenza di più opzioni spirituali spesso confliggenti fra di loro. Lei cosa ne pensa della possibilità di questa più seria “convivenza spirituale”? È possibile attuarla e fondarla su valori condivisi, dando vita a un legame sociale solido e duraturo?

Il cosiddetto dialogo interreligioso non può essere altro che una sintonia tra persone che fanno una genuina esperienza di spiritualità, vale a dire che si pongono seriamente domande sul senso dell’esistenza. Discutere di dottrine e di precetti è come litigare sulla forma o il materiale di una bottiglia senza preoccuparsi di cosa contenga. Temo che avesse ragione il Cardinal Martini quando diceva che il mondo non si divide fra credenti e non credenti, ma fra pensanti e non pensanti.

Il sostrato di “pensiero debole” che permea tutta la cultura occidentale (relativismo, edonismo e, in parte, nichilismo) favorisce o è d’impedimento per questa convivenza spirituale?

Chi ha un orizzonte soltanto terreno non è detto che disprezzi chi invece guarda all’Altro e all’Oltre. Spesso gli agnostici ci pongono domande scomode e dobbiamo esser loro grati, se lo fanno in buona fede. Ma anche chi è ‘troppo’ religioso e svaluta le realtà terrene ha grossi problemi e probabilmente dovrebbe curarsi nel suo stesso interesse. Come al solito si torna al buon senso degli antichi che in ogni cosa predicavano ‘il giusto mezzo’.

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