Terremoto del 1908, il racconto di Giuseppe Quattrocchi: "L'alba del 28"

Terremoto del 1908, il racconto di Giuseppe Quattrocchi: “L’alba del 28”

Terremoto del 1908, il racconto di Giuseppe Quattrocchi: “L’alba del 28”

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mercoledì 28 Dicembre 2016 - 08:07

Riceviamo e pubblichiamo il racconto di Giuseppe Quattrocchi che con intensità descrive, come un diario, momenti della tragedia che hanno segnato la storia di Messina

L’alba del ventotto

Chi fu un tronu?

Parsi na santa barbara cha scuppiava.

Trema, trema!

Scappati.Terremoto, u terremoto! Nino moviti, scappa!

Matri chi botta! Curri, curri, si balla!

‘Nta strada, ‘nta strada, scinnemu…curri curri! Papààààà! A mamma aunne?

Cu’mmia è! Nino acca sugnu! Scinni, curri, pensa e to frati. Fuiti, fuiti!

Ancora avia brisciri e la città era avvolta nel buio. U friddu tagghiava a facci.

Era trascorso da poco Natale e u bambinu stava ancora ‘ncucciatu, nella mangiatoia dei presepi allestiti in tutte le case di quella città, affacciata sullo stretto di mare che porta il suo nome.

Ancora tri ghiorna e arrivava a fini i’llannu. Qualche ora prima, il teatro Vittorio era ancora illuminato, anche se sulla rappresentazione lirica che era stata messa in scena, l’Aida, era calato il sipario e sulla via Garibaldi c’era un via vai di persone che approfittando del clima festivo si attardavano ancora per strada, nonostante piovigginasse. Schizziava, diceva mio padre, era na mala sirata.

Mi ero catapultato fuori di casa, scendevo le scale saltando tra i gradini rotti e mancanti. Avanzavo quasi a tentoni e inalavo un’aria densa di polveri di calcinacci sgretolati, la respiravo, la sentivo in gola. Il buio era rischiarato dalla luce di un lume, che Giuseppe Fratantonio, il vedovo che abitava al piano sotto il mio, teneva acceso in mano. Era in mutande, bianco come se gli si fosse rotto sulle spalle un sacco di farina. Teneva una mano pudicamente davanti al ventre come a scusarsi della sua indecente nudità. Fermo, mi disse, non ci su chiù i scali. Davanti a me uno squarcio tra le mattonelle e poi il vuoto. La rampa di scale era collassata su se stessa portando con se nella caduta gli inquilini che vi si erano avventurati. Il pavimento si dondolava sotto i piedi come se si fosse sulla tolda di una nave “scialacquata” dalle onde. Guardai il vedovo che allungava il braccio illuminando il gran polverone che le macerie avevano sollevato. Femmi, stati femmi!

Fratantonio lanciò quell’avvertimento con la vece tremante al ritmo della scossa e lo disse come se fosse l’ultima cosa che avrebbe detto nella sua vita.

La ringhiera del ballatoio sopra di noi cigolò paurosamente e istintivamente guardammo in alto. Scansiti, urlò, ma non ebbe il tempo di farlo lui. La pesante struttura in ferro battuto gli si abbatté addosso fracassandogli la testa.

Fermo rimasi io! Impietrito.

Dietro di me era un vociare urlante. Mi spingevano ed io a gridare, non ci su i scali!Femmi! Non ci su i scali! Poi fragorosi boati, secchi tonfi, stridere di metalli e mattoni, fischi e strisciate lancinanti di muri contro muri. Travi di legno che gementi sotto il peso di muri addossati, si flettevano come l’arco di un arciere pronto a scoccare la sua freccia e scricchiolando si spezzavano lanciando schegge ovunque. Tutto questo inferno nel buio denso dei muri sfarinati di quello che restava del palazzo che mi stava crollando addosso ed io insieme a esso.

A latu i mia, in mezzo al calcinaccio, tanto vicini chi putia tuccari, c’erano donna Giovanna e so maritu, ‘nto lettu assittatu, che mi guardava con gli occhi stralunati. Erano precipitati da due piani sopra, sfondando pavimenti e soffitti, sui quattro piedi del letto in ferro battuto e rimanendo illesi.

Matri, maaatri, chi fu? Urlava, chi fu? Signuruzzu beddu! Aiutatimi vuuiii!

Donna Giovanna aveva la faccia simile ad un mascherone ornamentale, uno di quelli scolpito sulla pietra di volta degli archi che fanno da cornice ai maestosi portoni dei palazzi nobiliari.

Il viso infarinato, i capelli spilanati come se avesse affrontato una sciroccata in riva al mare, gli occhi sbarrati e la bocca aperta a dismisura in una smorfia di terrore. Gesù, Giuseppi e Mariiaaa, salvati l’anima mia! Ripeteva a cantilena.

Eravamo in mezzo alle macerie, illuminati dal lume del vedovo buonanima, che il Signore lo abbia in Gloria, miracolosamente integro, incastrato tra le gambe del poveretto coperto dall’inferriata e un cumulo di mattoni.

Poi improvvisamente ancora un boato. Venne giù altro calcinaccio. Una intera parete in mattoni precipitò in verticale, mettendosi in mezzo tra me e donna Giovanna che ritrasse istintivamente il braccio che aveva teso verso me in cerca d’aiuto. Il lume si spense e la paura divenne padrona di quel mondo senza luce.

Le urla si fecero distinte. Vicine e lontane, un orrendo coro di dolore e terrore.

Crollai su me stesso coperto dalle macerie inghiottite dal buio. Non potevo muovere le gambe e a tentoni cercai di trovare dove fosse l’impedimento. Le gambe. Le mie gambe! Non le “sentivo”. Madunnuzza!

Una voce, ‘ccu c’è?

Donna Giovanna? Nino sono, mi sentite? Qua sono.

Nino? O Nino?

Donna Giovanna, qua sono!

Nino ti sentu luntanu, mi friscunu i ricchi!

Ruotai il braccio attorno a me, ovunque toccavo macerie. Vostro marito?

Non lo so, ho un muro accanto. Improvvisamente un urlo e un pianto dirotto, cadenzato dal ritmo di uno strano singhiozzo. Sembrava inghiottisse l’aria a bocconi e che ci si strozzasse ogni volta.

Uno spiffero d’aria filtrava da qualche apertura portando con se un acre odore di legna bruciata.

Ero bloccato dai calcinacci, ma non volevo dirlo alla donna per non spaventarla più di quanto lo fosse.

Quello era stato un terremoto. Un forte terremoto! Forse più forte di quello di cui si raccontava, avvenuto il cinque febbraio di più di cent’anni addietro.

“Fici cchiù dannu du cinqu i fivraru” si diceva in città per definire qualsiasi cosa fosse danno, tragedia o addirittura monelleria di carusi.

I carusi! Chiamavo a gran voce i miei fratelli. Nessuna risposta. Ma erano dietro me quando ci rovinò tutto addosso, mentre i miei genitori stavano ancora scendendo per le scale. Mia madre si era attardata in camera. Pigghiu nu scialli. Scinniti, scinniti, accà sugnu!

Moviti! Urlava mio padre, lassa tutti i cosi e veni!

I ricchini pigghiai! Poi non udii altro. Solo un grande fragore di crolli tutto intorno a me. Forse erano rimasti dietro e sotto di loro le scale non avevano resistito ai ciechi scossoni della terra.

Era abitudine di mia madre poggiare gli orecchini sul ripiano delle pettiniera davanti alla quale, ogni sera scioglieva i capelli spazzolandoli mentre parlava con mio padre, che era già a sotto la pesante ‘ncuttunata. Le raccontava della giornata.

Mio padre ha un buon lavoro. È un impiegato delle Regie Poste e porta a casa un dignitoso stipendio. Non c’ha fatto mai mancare nulla. Abitiamo in cinque nella nostra casa al terzo piano dietro la via Garibaldi. Ho due fratelli più piccoli, na cammurria sunnu, il più piccolo poi! Attaccato come un francobollo, non mi lascia mai. Davanti ai nostri affacci sulla strada, ci sono altre case e dietro si erge la lunga Palazzata, una fila ininterrotta di palazzi attaccati l’uno all’altro, che cinge il perimetro del porto come un bastione a difesa della città.

Cosa sarà rimasto adesso? E i miei? Nel buio rischiarato da mille lamenti, chiamavo a gran voce ma nessuno rispondeva. Quelle voci pietose avevano un volto ed io dovevo sapere. Cercavo di liberare le gambe incastrate tra i calcinacci. Dovevo potermi muovere, frugare tra le macerie ed anche se al buio, avrei senza dubbio riconosciuto a chi appartenevano quelle flebili voci che chiedevano aiuto. C’era tutto il palazzo collassato su se stesso e sugli abitanti che avevano cercato la salvezza imboccando l’unica via di fuga possibile. La rampa di scala che portava all’androne e fuori dal portone, alla strada.

Le tempie martellavano furiosamente. Un boato sovrastò i lamenti che mi circondavano. Eccola, una nuova scossa pensai, ora trema. Però la terra non tremò, sentii invece, sempre più distintamente, un rumore simile al friggere dell’olio in padella, che invase il buio sostituendosi ai lamenti.

Acqua. Era acqua salata. Filtrava tra le macerie e ne sentì il gusto sulle labbra. Acqua di mare, qui? Forse la città è sprofondata e l’acqua ci sommerge. Non osavo immaginarlo. Per un istante pensai a chi era in strada. Probabilmente non sarebbe stato sicuro neanche li.

L’acqua era ovunque attorno a me, velocemente salì di livello sino a coprirmi le spalle, riuscivo a stento a respirare, era arrivata a lambirmi le labbra. Donna Giovanna urlava terrorizzata, incastrata tra le macerie che coprivano il suo letto matrimoniale in ferro battuto, diventato ormai una trappola dalla quale non poteva fuggire. Acqua, diceva, acqua! D’unni veni st’acqua? Chiedeva istericamente urlando. I linzola si scularu!

Le lenzuola bagnate? Stamu ffuannu! Muremu ffuati! Cercai disperatamente di divincolarmi dalla morsa di calcinacci che mi bloccava. Più cercavo di muovermi, più l’acqua si infiltrava in profondità e poi, così come era arrivata, cominciò a ritirarsi trascinando con se tutto quello che era riuscita a strappare dal terreno. Sentivo accumulare dietro la schiena, materiale che non capivo cosa fosse, questa massa di detriti premeva talmente sulle mie spalle che fui costretto a curvarmi, non potendo più opporre resistenza. Sembrava fosse defluita completamente, ero fradicio, l’acqua aveva trasformato la terra in fango. Non so quanto tempo trascorse nel silenzio di quel buio sempre più freddo, ma ancora una volta l’acqua filtrò tra i calcinacci riempiendo i vuoti che permettevano di respirare. Non c’era più alcun lamento. Tra le macerie, dove doveva esserci donna Giovanna, non perveniva nessun rumore, solo un flaccido scialacquio sul terreno e ancora una volta l’acqua si ritirò portando con se altri detriti, stavolta più piccoli che mi coprirono ulteriormente.

Comincia a lamentarmi per il dolore e finalmente nel silenzio la voce di donna Giovanna si fece sentire. Chi hai?

Io? Niente! Vossia come si senti?

Mi sentu rutta! Disse in un lamento. E l’acqua tornò ancora. Stavolta solo un velo, tanto quanto bastava a farne sentire la presenza e si ritirò in silenzio, quasi senza farsene accorgere, lasciando tutto fermo sul terreno, senza accumulare altri detriti sul mio corpo.

Il tempo scorreva inesorabile, ma non ne avevo la percezione. Il dolore era diffuso in tutto il corpo ed un insieme di stanchezza, ansia e paura, conducevano un gioco crudele nella mia mente, al quale non volevo partecipare. Un senso di torpore sempre più pesante premeva sulle palpebre e mi costringeva ad una strenua resistenza per restare sveglio. Il panico si stava impadronendo di me. Il cuore sembrava un tamburo impazzito. Credevo scoppiasse dentro, tanto era forte il suo rullare. Stavo mollando , lo sentivo, mi sarei lasciato andare a quella sensazione simile all’appagamento che precede un sonno ristoratore dopo una giornata faticosa. Non resistevo. Gli occhi si appannarono e un velo bianco scese davanti a me, nel buio pesto che mi circondava.

Improvviso venne il nulla e poi un’altalena di risvegli e perdita di conoscenza. Istanti di lucidità, svegliati da rumori e tonfi lontani. Ero un tutt’uno con il palazzo, il mio palazzo sbriciolato, la mia vita maciullata, la mia famiglia schiacciata, i miei sogni frantumati.

Mi svegliavo e riassopivo in quello stato d’incoscienza ristoratrice, conscio di far parte delle macerie, dentro un sarcofago di fango che si era formato attorno a me, che mi stringeva indurendosi sempre più, quasi a stritolarmi.

Un improvviso dolore lancinante mi fece sbarrare gli occhi. Atroci crampi alle gambe. La posizione innaturale alla quale ero costretto e il gelo del fango delle macerie avevano lavorato in silenzio irrigidendo i muscoli dall’inguine sino all’alluce in entrambe le gambe. Avevo già provato questa sensazione nuotando nelle fredde acque dello Stretto, l’estate passata. Un crampo al polpaccio mi bloccò, fortunatamente ero a pochi metri dalla riva.

Avevo voglia di piangere ma non potevo, il dolore era troppo forte cercai di muovere le gambe, fu tutto inutile ero bloccato dal petto in giù e allora provai a irrigidire ulteriormente e rilassare i muscoli più volte. Il dolore era insopportabile ma improvvisamente, cosi come era venuto, cominciò a diluirsi trasformandosi in sensazione di calore e dolore diffuso in tutto il corpo, forte ma non lancinante come poco prima, almeno era sopportabile.

Ancora rumori. Cercavo di capirne origine e provenienza. Forse c’era ancora qualcuno vivo. Cu c’è? Rispunniti? Nessuna risposta. Cominciavo ad avere allucinazioni. Non c’era nessuno! Ero solo! Ero ancora vivo e nonostante i forti dolori lasciati dai crampi fui colto da una crisi di riso isterico. Non riuscivo a fermarmi.

Chi hai? Chi ti ficiru?

Sentire la voce della donna mi riempì di gioia. Donna Giovanna siti viva?

A malebba non mori mai.

Sorrisi a quella battuta quasi scontata, un modo di dire che sdrammatizzo quell’istante. La vista che l’oscurità ci negava non era necessaria per stabile quanto fosse vicina Donna Giovanna. Era ancora con me. Io e lei, soli nel buio, vicini ma lontani. Solo la forza delle nostre voci era il metro della distanza che ci separava.

U Signuri mi vadda e mi lassa campari. Si lamentò per qualche secondo. Non mi sento il braccio sinistro, però riesco a muovere le dita, è come se la mano fosse staccata dal corpo.

Donna Giovanna sicuramente il braccio è intorpidito, drummintatu è!

Si, sicuru chi è così, ma non posso muovermi sono incastrata, mi sentu tutta rutta. Sono sotto pietre e mattoni, ma la faccia è libera, cosi come il braccio destro. E tu?

Io sono bloccato, sono coperto dal fango.

Non disse più nulla e io non parlai. Rimanemmo in silenzio. Era come se non volessimo consumare quel poco d’aria che era rimasta intrappolata insieme a noi in mezzo alle macerie.

Ancora quei rumori sordi, provenienti dall’alto. Allora non era un’allucinazione! Avrei voluto chiedere a Donna Giovanna se avesse sentito anche lei, ma si era ammutolita da un po’ e io non volevo chiamarla, avevo terrore che non rispondesse. Altri rumori, non sembravano grossi crolli, era come se cadesse un mattone alla volta. Non ebbi il tempo di capire da dove provenivano che fui assalito ancora da quella sensazione di torpore, che mi aveva sopraffatto tempo prima. Stavo ricadendo nell’incoscienza e forse lo speravo, almeno non mi sarei accorto di morire se fosse giunta la mia ora. Ma chi staiu dicennu? Moriri? Jo? No! Devo sopravvivere. Devo cercare i miei, potrebbero essere ancora vivi. Se chiamano devo essere sveglio, devo rispondere. Pensavo a voce alta. Sentivo i lamenti della donna vicina, C’era, c’era. Era ancora viva. La mia testa era pesante, mi sentivo confuso, era come se girassi su me stesso vorticosamente, come quando si giocava in cortile e poi non si riusciva a camminare dritti davanti a se. Ecco, la stessa sensazione e ancora il velo bianco si frappose tra me e il buio. Il tonfo di qualcosa di metallico mi svegliò da quella sensazione di dormiveglia e una fievole voce mi raggiunse, non capivo bene cosa dicesse. Avevo le orecchie coperte dal fango, ma sono sicuro che non fosse la voce di donna Giovanna. Il buio cominciò a prendere forma e un chiaroscuro di forme indistinte colpì i miei occhi di nuovo sbarrati. Sentì un toccò sulla mia testa, ma non potevo muovermi. Adesso percepivo una pressione, come se qualcosa spingesse. Poi un botto dietro di me.

Mariaaaa! si lamentò donna Giovanna. Sembrava non avesse più fiato in corpo, ne avevo percepito la flebile voce dietro le macerie che ci separavano, tra il crepitio di calcinacci che cadevano rumorosamente a qualche metro da noi. Dovevano esserci dei vuoti tra le macerie e ancora un pò aria da respirare. Io ne avevo bisogno, mi sentivo come in una pressa e con un peso sulla testa che aumentava sempre più. Non riuscivo a resistere, il collo mi faceva molto male e ormai non opponevo più resistenza. Il capo reclinato sulla spalla destra, in avanti. Il mento affondato e incastrato tra il fango ormai indurito come la calce. Potevo muovere a stento le labbra e cercavo di incuneare le dita della mano libera tra i calcinacci per raggiungere il viso. Avevo un disperato bisogno d’aria, ma i detriti premevano davanti alla bocca ed al naso. Dovevo grattare un po’ di spazio tra me e loro.

La tempia destra pulsava e non riuscivo ad aprire la palpebra, sembrava che le ciglia fossero incollate tra loro e avevo la sensazione che un liquido mieloso colasse dalla fronte. Forse era sangue. Probabilmente un detrito mi aveva colpito in testa e ferito durante il deflusso delle acque e a primo acchito, non mi ero accorto di nulla. Qualcosa di duro e morbido allo stesso tempo, premeva sulla mia nuca. Non era un masso. Riuscì a muovere la testa quel tanto da capire cosa fosse. Sembrava ci fosse una membrana morbida e oleosa tra la mia testa e quel qualcosa di duro. Lo so è illogico, ma era così. La stessa sensazione che provavo quando si giocava a letto con i miei fratelli, prima di addormentarsi. Ci si metteva testa contro testa, fronte contro fronte a guardasi fissi negli occhi facendo le occhiatacce. U primu chi ridi peddi.. Testa cu testa?!

Forse è un mio fratello. Erunu arreti i miaaaaaa! Gridai con tutto il fiato che avevo in gola. Nicola! Jano! Ancora voci indistinte rimbombarono nella mia testa e punti di luce bucarono il buio. Qualcosa sfiorò la mia testa. Mammaaaaaaaa! Una voce ovattata, lontana. Ancora strane forme di luce crearono ombre nel nulla che mi circondava. Dall’occhio buono intravidi mattoni smussati a pochi centimetri dal mio viso. Ancora quei rumori sulla testa. Sentivo la pressione delle macerie sul mio corpo aumentare.

Mammaaa! Oh’maa?Si tuuu? Scoppiai a piangere. Un pianto liberatorio che sgonfiò il mio petto dall’ansia che si era accumulata. Piangevo ‘ngutturiatu, annaspando alla ricerca d’aria pulita.

Non mi lassari, non mi lassari. Farfugliavo confuso. Dommi, dicivi, dormi. Rumori sordi rimbombavano tra le sacche d’arie in mezzo alle macerie che mi coprivano. Uno sbuffo d’aria mi colpì sulla fronte e una macchia di luce abbagliò l’occhio tumefatto che ancora mi lasciava immaginare qualcosa. Ancora quel velo d’incoscienza che calava davanti a me come un sipario all’Opera di Pupi. Oh maa! Dormunu, non cantari sta ninna, jo sbigghiu a’stari. Le palpebre erano sempre più pesanti. La sentivo, la sua voce era un sussurro. Loro già dormivano e io la guardavo. Cantava una nenia lenta e malinconica, sempre quella. Viniti sonnu, viniti e non taddati, chi stu ciatuzzu beddu si voli fari ahooo. Ssssh! Dormunu, finita è la storia, niu niu e u cuntu finiu, dicevi, ora dormi. Un bacio e uscivi dalla stanza con la luce che ti seguiva ubbidiente. Ti sentivo parlare ancora con papà e poi silenzio. La luce cremosa dei lampioni accesi filtrava dalle imposte socchiuse annacquando il buio che non mi faceva più paura. Stavo sempre girato sul fianco. Guardavo la porta, come se facessi la guardia ai miei due fratelli più piccoli, accucciati tra me e il muro, li dov’era addossato il lettone. Sono stato sempre avanti ai miei fratelli , badavo loro, li tenevo a freno. E forse anche adesso stanno dietro di me. Mammmaaaaa!

Mille ricordi attraversavano la mente e si materializzavano in parole che a fatica si facevano strada tra le labbra,spinte fuori dalla lingua impastata di fango. Ero sveglio, sapevo d’esserlo, ma era come se sognassi, vedevo il cortile, vedevo noi ragazzi giocare. Si, vedevo e sentivo le voci, lontane gridare. Voci di bimbi? No! Però eravamo noi, riconoscevo tutti i miei amici e c’ero io con i miei fratelli! Stanno con me. I vaddu jo! Ancora av’a scurari, è presto per tornare, spetta, spetta! ‘Mpuzzu jo. Tri! dissi lu cavaddu di Bonfittu, ‘nfittu ‘nfittatu lu nasu e cacatu, quanti corna jetta a crapa? Cincu dissi lu cavaddu di Bonfittu ….non sento le dita. Il fango mi copre. Sono stanco. Non devo chiudere gli occhi Devo contare, devo stare sveglio. Cunta, cunta! Si, si, si, sveglio sono! Uno, dui, tri, quattro. Dove sei? Non ti vedo. T’nnannasti?

Muovevo il braccio a stento e la mano libera toccava ruvido e bagnato attorno a me. Sentivo la pelle tirata come volesse sgranarsi. Mi rendevo conto di cosa fosse. Era fango rappreso. Riesco a grattarlo via e pizzico la pelle della guancia. Si, sveglio sono. Oh maa? La faccia è fredda, ma ho sentito il pizzico, lo sento. Si! Pizzica, pizzica…, sbigghiu sugnu! Pizzica ancora. ..pizzica, pizzica, pizzica saracinu, sutta o lettu i mastr’antuninu, c’era nu jaddru chi cantava, chi facia cuccurucu … chi facia cuccurucu. Cuccurucuuu! Urlai con quanto fiato avevo in corpo. Pianto e riso convulso s’impadronirono del silenzio attorno a me. Cuccurucuuu! Il gallo, si il gallo! Quello che regalarono a mio padre qualche anno addietro, due giorni prima del ferragosto.

Rivivevo nitida la scena nella mia mente. Ricordavo tutti i particolari come fosse successo la sera prima. Speriamo chi ci stiraru già u coddru, avevi detto. E infatti così fu. Papà lo portò a casa. Il gallo era morto, col collo “stirato” ma era ancora cu tutti i pinni!

Matri santissima, dicesti, ricordi? Pari ancora vivu. Papà rideva, in piedi sull’uscio della porta della cucina e lo teneva per le zampe. Il braccio era alto sulla sua testa e a cricchia du iaddru spazzolava il pavimento.

E ora?

E ora? Fece eco papà. Ora lo spenniamo.

E chu ‘llava mai fattu! Non ho idea su come fare.

Chiamiamo comare Maria e lo facciamo fare a lei.

Ma si deve aprire e pulire dalle interiora, lei lo fa?

Si, lo sa fare, l’ha già fatto. Poi lei è contenta di farci una cortesia. Vi scambiate qualche chiacchiera e a cummari è cuntenta.

Vuoi dire che sugnu cuttighiara? E tirasti lo strofinaccio a papà.

Tu? Pettegola? Non l’ho detto e comunque non ti risicari chiù di tirarmi qualcosa. Disse ridendo papà, facendo finta d’essere arrabbiato. Quel pollo faceva impressione, era più alto di te, mamma.

È tardi, chiamiamo la comare domattina che è la vigilia. Intantu pinsamu unni ama mettiri sta bbestia.

Aspetta, ti disse, appoggio la il povero pollo sul pavimento e tirò fuori da un cassetto un rotolo di spago, ne tagliò un pezzo con il coltello e dopo aver riacciuffato il pollo, lo lego dai piedi fissandolo al filo usato per stendere la biancheria, fuori dalla finestra della cucina.

Io di corsa mi precipitai per le scale affacciandomi al finestrone che si apriva sul ballatoio. Che spettacolo!

Il pollo pendeva appeso per le zampe illuminato dalla luce dei lampioni. Sembrava volesse tuffarsi nel vuoto, come per scappare dalla ingloriosa fine che lo aspettava, ‘nta pignata chi patati.

La mattina seguente mi svegliarono i tuoi strilli.

Cerano i figli del giardiniere del comune, che dal finestrone del ballatoio, come fossero sulla prua di un lontru, a caccia di pescespada, con l’aiuto di una canna, cercavano di fiocinare il povero gallo.

Disgraziati a vostra matri lo dico, vi fazzu dari cu nerbu.

Ridevo piangendo. Stavo impazzendo. Parlavo con mia madre nel buio, ma non poteva essere li con me. Ero sepolto nella nuda terra, anzi, ero stato sepolto dalla nuda terra, sotto mattoni e calce, travi e montagne di mobili distrutti. Il dolore alle gambe era lancinante mi sentivo incastrato come dentro uno stampo, ero bagnato coperto dal fango ghiacciato. La morte doveva essere vicina, non sentivo più lamenti e probabilmente aveva già provveduto a fare il primo raccolto. Di sicuro era da qualche parte nel buio a fissarmi, forse vicinissima, dietro qualche trave caduta, forse seduta accanto a donna Giovanna, al posto del marito e magari la guardava aspettando di cogliere anche la sua anima. Ma cu mmia n’avi tempu mi spetta.

Ancora più luce. Sopra di me. Aria!

Improvvisa una mano sulla mia faccia. Mi senti?

Aiuto! Grido. Donna Giovanna?

Un lamento rispose al mio richiamo.

‘Accà! ‘Accà! DDui sunnu!

Aunni?

Qua, sono qua! Fozza! Fozza damuni i versu! Scavamu , scavamu, usati i mani! Qua siamo, ora vi pigghiamu, curaggiu!

Il ventotto dicembre del millenovecentotto, alle ore cinque e venti, un violento terremoto, seguito da tre onde di maremoto, colpì l’area dello Stretto di Messina, provocando oltre centoventimila vittime.

Giuseppe Quattrocchi

7 commenti

  1. Bravo, anche mio nonno mi raccontava che era rimasto sotto le macerie e un cane di nome Giappone lo aveva trovato, mi piacciono queste testimonianze.
    A mio nonno non morirono per fortuna nessun parente, lui fu portato a Genova in ospedale dove fu tutto ingessato, alla fine scappo dall’ospedale perché stava bene, si fece aiutare per levare l’ingessatura e con vari passaggi tornò a casa qui a messina

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  2. Bravo, anche mio nonno mi raccontava che era rimasto sotto le macerie e un cane di nome Giappone lo aveva trovato, mi piacciono queste testimonianze.
    A mio nonno non morirono per fortuna nessun parente, lui fu portato a Genova in ospedale dove fu tutto ingessato, alla fine scappo dall’ospedale perché stava bene, si fece aiutare per levare l’ingessatura e con vari passaggi tornò a casa qui a messina

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  3. LA VERA MESSINA E’ ANCORA SOTTO LE MACERIE

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  4. LA VERA MESSINA E’ ANCORA SOTTO LE MACERIE

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  5. царская МАРИНА СПАСИБО SPASIBO

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  6. царская МАРИНА СПАСИБО SPASIBO

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  7. Elio quattrocchi 29 Dicembre 2021 07:57

    RICORDO CON EMOZIONE I RACCONTI DI MIO PADRE CHE, SOPRAVISSUTO AL TERREMOTO INSIEME ALLA SUA FAMIGLIA, SI PRODIGO’ AD AIUTARE I SOPRAVISSUTI ANCHE SE LE AUTORITA’ MILITARI PROIBIVANO L’INTERVENTO DEI CIVILI REGOLARMENTE ELETTI QUALI MIO NONNO PATERNO AVV.GIUSEPPE QUATTROCCHI PRESIDENTE DEPUTAZIONE PROVINCIALE DI MESSINA CHE MALGRADO TUTTO CONTRASTO’ I MILITARI E PRESE IN MANO LA RICOSTRUZIONE DELLA CITTA’. SONO FIERO DELLE MIE ORIGINI E SPERIAMO CHE I GIOVANI PORTINO AVANTI QUESTE SANE RADICI.

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