I Fantasmi sono in mezzo a noi

I Fantasmi sono in mezzo a noi

Gigi Giacobbe

I Fantasmi sono in mezzo a noi

martedì 22 Novembre 2011 - 15:47

Dopo "Trovarsi" di Pirandello diretto da Enzo Vetrano e Stefano Randisi al Vittorio Emabnuele anche la Sala Laudamo è stata inaugurata dai due registi e attori palermitani con dei testi di Pirandello e Franco Scaldati riuniti sotto il titolo di "Fantasmi"

L’uomo ha bisogno di credere che la morte non sia la fine di tutto ma un continuum della vita. Ha bisogno d’inventarsi sovrastrutture come i fantasmi. Illudersi che esistano. Che siano in mezzo a noi. Alle nove di sera per esempio. E che girino in mezzo al pubblico in una sala Laudamo prima dell’inizio dello spettacolo che s’intitola, manco a dirlo, Fantasmi. Uno spettacolo scritto-diretto-interpretato da Enzo Vetrano e Stefano Randisi, una coppia teatrale che miete successi un po’ dappertutto con le proprie e singolari rivisitazioni pirandelliane, in compagnia qui d’una nipotina di Anna Magnani che risponde al nome di Margherita Smedile. All’inizio è Randisi che si sostanzia sulla scena in un incipit che rievoca guerra e morti, fantasmi e personaggi che più avanti si presenteranno sotto le spoglie di Totò e Vicè. Due poetiche e candide figure di due guitti o due clochard partoriti dalla mente bambina di Franco Scaldati che li fa riflettere per un attimo se la morte è sogno o se il sogno è morte. Un rovello quasi che potrebbe essere stato partorito da quel Sigismondo de La vita è sogno di Calderon de la Barca. A rendere più truce e assurda questa vita ecco apparire la Lora pirandelliana di Sgombero, metafora dilaniante di ciò che può avvenire in una qualunque nucleo familiare, lì dove un padre-padrone approfitti di sua figlia costretta a subire malsane voglie ed essere da lui ingravidata. Un padre che adesso se ne sta lì morto stecchito su un giaciglio con una vecchia moglie a vegliarlo (che qui non si vedrà) e con una espressiva Margherita Smedile dai modi bruschi e revanscisti a vomitare a quel cadavere la sua vita di sgualdrina, dopo essere stata da lui buttata sulla strada come una cagna e dopo aver lasciato il figlioletto di otto giorni dietro la porta di casa. E meno male che un Dio giusto s’è preso con sé la creaturina con tutto il corredino che la giovane donna adesso stringe fra le mani mentre s’allontana lungo le rotaie d’una ferrovia, tratteggiata mirabilmente nella scena di Marc’Antonio Brandolini, le belle luci di Maurizio Viani e i costumi di Mela dell’Erba. Una scheggia teatrale che si moltiplica all’estrema potenza quando sulla scena avviene l’incontro tra L’uomo dal fiore in bocca e l’avventore ( gli stessi superlativi Vetrano-Randisi). Il primo, accarezzato da un epitelioma che lo condurrà quanto prima alla morte, vive in modo paradossale l’assenza dalla vita e l’attaccamento alla vita degli altri descrivendo con dovizia di particolari ogni movimento e pensiero altrui; il secondo ad ascoltare i suoi strambi ragionamenti, mentre se ne sta di sicuro più attaccato alle cose terrene. Forse bisognerebbe vivere, come fa intuire Pirandello, come se ogni giorno fosse l’ultimo per l’uomo. Vivere continuamente sul filo della morte. Una morte che diventa poesia in quel finale tra Totò e Vicè che giocano a nascondino e cercano di farsi compagnia l’uno con l’altro.- Gigi Giacobbe

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