Concorso Cavaleri, 3°posto liceo. Anna Valenti: "Fuori luogo"

Concorso Cavaleri, 3°posto liceo. Anna Valenti: “Fuori luogo”

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Concorso Cavaleri, 3°posto liceo. Anna Valenti: “Fuori luogo”

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venerdì 14 Giugno 2019 - 07:39

Messina- Chi è davvero "fuori luogo"? Chi sono i diversi? Il 3° posto tra i vincitori del liceo è di Anna Valenti

Si conclude oggi la pubblicazione degli elaborati dei vincitori del Concorso Silvana Romeo Cavaleri che ha visto la partecipazione di 120 studenti dei licei cittadini

III POSTO – ANNA VALENTI (III B LICEO MAUROLICO)

Fuori luogo

Una tra le migliori sensazioni al mondo è forse sentirsi a casa. Sentirsi a casa, che non sempre indica delle mura, delle sedie, un letto. Sentirsi a casa, appartenere a qualcosa, avere familiarità con l’ambiente che ci circonda. Essere a proprio agio.

A proprio agio: oggi cosa significa essere, sentirsi, stare a proprio agio? Forse non significa più nulla.

Oggi chi non si sente più a proprio agio? Chi non si sente più a casa?

I diversi. Sono i diversi, oggi, a essere bersaglio di chi si sente fin troppo a proprio agio, di che crede che casa sua sia solo sua. E chi sono, infine, i diversi per eccellenza, chi gli “intrusi”, gli “impostori”, gli “sbagliati”?

La risposta è, purtroppo, quasi sempre una: i migranti.

Intrusi in un mondo che non li riconosce, sbagliati quasi sempre, impostori in una società di cui ormai si dice troppo spesso ”hanno preso il posto”. Ma chi sono i migranti davvero? Numeri, minacce, “bestie da macello”, ma quasi mai persone. Ma quasi mai umani, umani quanto noi, umani come noi. Oggi guardiamo alla notizia di un barcone affondato, di un carico (come stessimo parlando di merci) di migranti appena sbarcato, quasi come a un mainstream dei giornali. Numeri, numeri, numeri, solo numeri. Cento morti ieri, cinquanta domani, ma a noi che cambia? Chi li conosce?

Forse noi no, ma qualcuno sicuramente li conosceva, qualcuno sicuramente li aspettava. Qualcuno li amava.

Forse anche solo il loro nome, che partito un po’ in anticipo da una terra di terrore, era già approdato nel futuro, in un posto dove sperava nulla potesse scalfirlo, ma la buona sorte gli ha giocato un brutto scherzo, abbandonandolo sul più bello.

Ma oggi nessuno guarda a questi cuori, che brillano negli occhi di persone pronte a nascere di nuovo, pronte a iniziare una nuova vita che non li colpisca duro come la precedente.

E se non è il mare a ucciderli di nuovo, se non è il mare a fare nuovamente delle loro anime terre desolate dalla paura, dei loro occhi pozzi vuoti, colmi solo di timore, siamo noi.

Siamo noi, ogni giorno: tu che stai leggendo questo, ti sei chiesto quante volte hai ucciso una di queste persone? Quante volte hai fatto di loro intrusi, sbagliati, impostori? Con uno sguardo sottecchi, con una parola di troppo?

Nessuno, forse, può ritenersi innocente di questa colpa.

Tutto questo accade perché non ricordiamo, perché non siamo capaci di fare tesoro del nostro passato.

La chiave del razzismo lo siamo stati anche noi.

Noi italiani, noi siciliani siamo scappati da questa terra, e quanto ancora continuiamo a farlo!

Dalla Magna Grecia al sogno americano, il nostro è il paese del cambiamento, della fuga e del ritorno. Siamo stati i primi a cercare la felicità altrove, ad abbandonare la nostra casa per cercarne una migliore, i primi a sentirsi diversi, sbagliati, intrusi. E forse siamo stati anche i primi a dimenticarlo. I primi a dimenticare che la divisione in “razze” può fare tanto male. Che una razza “buona” e una razza “cattiva” non esistono, e che quando si è pensato esistessero, è stato soltanto dolore.

E ora cosa ce ne facciamo del passato? Lo abbiamo accorciato, come un tema scritto male, forse proprio come farai con quello che stai leggendo adesso, e ce lo siamo buttato alle spalle.

Abbiamo dimenticato chi siamo, abbiamo dimenticato da dove veniamo, abbiamo dimenticato che i primi migranti siamo stati noi. E oggi chi siamo? Ci sentiamo “cittadini”, cittadini italiani, siciliani ”cittadini del mondo” dicono alcuni.

Ma come possiamo dire di essere “cittadini del mondo” se non consideriamo tale chi lo è tanto quanto noi?

E quindi non ci si sente più a casa, non ci si sente più accolti.

E la sensazione è sempre quella: disagio. Disagio per strada, disagio al supermercato, disagio in autobus. Disagio nel parlare con qualcuno, disagio quando quel qualcuno ti stringe la mano e poi la strofina sul jeans, quasi come se desse per scontato sia sporca, sia “infetta” da qualcosa che non conosce, da qualcosa che lo spaventa.

Quando la finiremo?

Quando finiranno i dubbi, i pregiudizi, le paure e le ansie?

Quando guarderemo a uno di queste persone come a uno di quelli ce consideriamo nostri “concittadini”, che spesso lo sono meno di loro?

Quando, ascoltando una delle tante disgrazie, che ormai sono all’ordine del giorno, proveremo pena come quella che proviamo per le morti italiane? Per le morti “in casa”?

Il mare toglie, il mare dà.

E oggi toglie molto di più di quanto abbia mai fatto, molto più del necessario.

E la desolazione di un pezzo di mare colmo di cadaveri di migranti è paragonabile a quello di una casa ormai polvere dopo un terremoto, di una città ormai cimitero dopo una guerra.

L’acqua torbida, corpi a mollo, gonfi, scomposti, il pianto sommesso di chi ancora aspetta la fine.

Il mondo è silenzioso qui.

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