Diretta da Marco Caldiron, la pièce è andata in scena al Teatro dei 3 Mestieri
MESSINA – “63 Azioni” in scena. Dallo script poetico “Vivere”, tratto dalla Silloge “Chiodi”, di Agota Kristof, con drammaturgia di Marco Gnaccolini, è stata realizzata la performance diretta da Marco Caldiron, messa in scena al Teatro dei 3 Mestieri il 15 e il 16 marzo, per l’attuale stagione di elevata qualità capace di intercettare una variegata domanda culturale.
La produzione della compagnia “Carichi Sospesi” ha realizzato la “mise en éspace” con interpreti Marco Tizianel e Chiara Cecconello, volutamente scarnificata e che è risultata destabilizzante, mettendo in crisi qualsivoglia certezza esistenziale che ancora possa dirsi preservata.
Fra il nascere e l’andare avanti fino… al morire, viaggio in uno straniante spaccato esistenziale
Disorienta, insomma, la parabola umana in rappresentazione con quel suo costringere gli astanti in un vortice mentale straniante, contrassegnato da ritmi davvero incalzanti…e toglie respiro.
Si è di fronte alla nuda disillusione, alle vite umane a termine, peraltro scandite da azioni imperiose, nella loro declinazione verbale in un tempo all’infinito… le 63 esemplari azioni dell’intitolazione, nello snocciolarsi inesorabile delle quali si caratterizza l’incipit.
E solo i verbi amare e morire, uno contraltare dell’altro, hanno avuto nell’opera teatrale una reiterazione a più riprese, attesa la loro assolutezza in termini di primarietà.
Il duo, formato da M. Tizianel e C. Cecconello, con innegabile sobrietà anche negli abiti, viranti al marroncino o in toni polverosi, ha concorso, con innegabile maestria e professionalità, in una perfetta osmosi, alla resa performativa, alla quale il sound ha conferito un ottimo contributo in termini valoriali: la sonorità ( a tratti fortemente dissonante, fino a diradarsi in meri rumori), non può reputarsi infatti quale sottofondo, poiché sovente ha sovrastato le parole e, anche quando è parsa strumento a servizio della rappresentazione verbale “ tout court”, ha avuto una sua propria connotazione, atta a generare spaesamento.
Degno di rilievo “I know What I Like (in your Wardrobe)”, brano dei Genesis.
Si è detto della drammaturgia, afferente a M. Gnaccolini, di gran significanza, sulle tracce della lirica della scrittrice ungherese A. Kristof, che, nella elencazione di 63 verbi all’infinito, mette in luce, alla ricerca della umanità perduta, il potere e la forza evocativa delle parole, capaci di rimando, con misurata essenzialità, alle sfide inesorabili della vita. Una poetica che lascia sgomenti, che non vuole trasmettere estasi, ma richiamarsi a ciò che l’essere umano realmente è, alla vita quotidiana concreta, e sovente sembra assente ogni spiraglio di speranza, pur se il verbo amare, ripetuto nelle differenti fasi, suggerisce altro.
E mentre la pièce attraversa quei 55 minuti, è un alternarsi di registri, da quello per lo più ossessivo – martellante, passando per il rievocativo, lo struggente, fino al disincantato distacco nella narrazione del cinquantesimo compleanno, il cui autodonarsi un tatuaggio della morte all’avambraccio sinistro, equivale a scandire l’appropinquarsi della fine inesorabile.
È arrivato il tempo in cui non si possono più porre in essere quelle azioni, prima elencate in una fastidiosa ridda, quando si pensava di godere di un tempo non finito, come è, invece, quello dell’essenza nostra creaturale.
Si è allora coscienti di non poter portare a completamento tanti progetti che si erano differiti.
E se alcuni percorsi sono stati imposti, in merito ad indirizzi in ambito scolastico, ad opzioni in quello lavorativo, e si sono subiti oppure ad essi ci si è ribellati, ora tutto ciò è distante in quel futuro prossimo troppo ristretto che si apre innanzi.
Le immagini fotografiche, poste in ordinata sequenza, così come quelle dei fotogrammi riprodotti in video, possono allora valere a mettere insieme sensati frammenti esistenziali (che tentano di dar senso al tutto), ove l’infanzia e l’adolescenza acquisiscono centralità crescente per la progressiva messa a punto della personalità come si è di poi strutturata.
Si è fatto cenno alla corporeità, alla sapiente gestualità e alla mimica, protagoniste come le parole e poste sullo stesso piano, concorrendo esse, tutte, al perfetto assetto della piece simbolica, che si è dipanata in guisa di diario esistenziale: trattasi in realtà delle vicende umane del regista, trasposte sulla scena, prive di orpelli anche quanto agli elementi scenici che non siano quelli prettamente funzionali, in una sorta di autoritratto del direttore della rappresentazione, che mano a mano si è composto attraverso un distillato di particelle esistenziali ghiacciate, che è comune ma differente da ogni altro, e in una sequenza diuturna di reiterazioni e cambiamenti, o declinazioni in opposti, definisce una vita, fino alla sua certa parabola discendente (chi nasce è destinato a morire, certus “an”, incertus “quando”) .
Meritato successo per questa performance densa e coraggiosa, accolta con gradimento dal pubblico presente, che nel suo risultare agghiacciante non è stata mai però scevra di una luce poetica, quella stessa che pur muove l’esistenza, e della quale sono intrise anche le battute finali che, evocando la lirica, rimandano a “raggrinzirsi, svuotarsi, affaticarsi, morire”.
Anche perché, per dirla con Nazim Hikmet, in un testo poetico tratto da “Poesie d’amore”, il ciclo della vita è un incessante moto di nascita e morte per ogni essere vivente e ogni elemento dell’universo: “E muore e nasce a tutta forza albero, stella, uomo, virus….e nasce e muore a tutto vapore”.
