"EU 013, l'ultima frontiera" apre l'Horcynus festival

“EU 013, l’ultima frontiera” apre l’Horcynus festival

Lavinia Consolato

“EU 013, l’ultima frontiera” apre l’Horcynus festival

domenica 03 Agosto 2014 - 09:56

Il primo docufilm girato nei C.I.E. italiani che dà voce a tutta l'insofferenza dei "detenuti non detenuti" rinchiusi non per ciò che hanno fatto, ma per ciò che sono: clandestini.

“EU 013, l’ultima frontiera” apre l’Horcynus festival. Il primo docufilm girato nei C.I.E. italiani che dà voce a tutta l’insofferenza dei “detenuti non detenuti” rinchiusi non per ciò che hanno fatto, ma per ciò che sono: clandestini. “Non si può arrestare un flusso migratorio”, spiega uno dei poliziotti presenti al porto di Ancona: la migrazione fa parte della storia, migrazione per la fame, per la guerra, per sopravvivere, ma una volta giunti qui, come spiega uno dei così chiamati “ospiti”, la prima a morire è la speranza. Per poter girare questo film, gli autori, Alessio Genovese (regista) e Raffaella Cosentino, hanno dovuto ottenere un decreto ministeriale: hanno visitato tre Centri di identificazione e di espulsione, a Roma, a Bari e a Trapani. Tutti e tre i centri si accomunano per le somiglianze a delle carceri e a dei manicomi: lo squallore che dilaga, scritte in arabo incise sui muri, plastica bruciata durante le rivolte, la sensazione che non passi mai il tempo, gli psicofarmaci, e l’insofferenza di chi non sa se dopo i 18 mesi di reclusione sarà rimandato indietro oppure otterrà i documenti. Senza documenti si è posti davanti ad una scelta: o rubare, o spacciare, e nel caso delle donne la situazione è sistematicamente più drammatica. Alle parenti, nelle celle del C.I.E. di Bari, alcuni ragazzi hanno attaccato immagini di donne nude e pure un paio di cartoline: aspirano ad arrivare in Svizzera per lo più, e alcuni di loro tentano e ritentano da più di cinque anni. Raccontare la propria storia è stato un attimo di creatività, di gratificazione per essere ascoltati, per poter dare la propria versione dei fatti, che risultano essere assurdi, come la storia di un ragazzo nato in Italia che, a 28 anni, è stato mandato in Tunisia, paese che non aveva mai visto, ed è dovuto tornare qui come clandestino, e costretto a sposarsi in carcere. Al C.I.E. di Trapani un uomo canticchia il ritornello di “Parole” di Mina e dice che girano sempre le stesse parole: libertà e democrazia, quando invece l’unica vera parola è business, un business sulla carne umana fatto dagli uomini sempre più ricchi, a scapito della gente sempre più povera, che vede sostituiti i propri nomi da numeri. A questi numeri è negato il diritto di poter essere chiamati “cittadini”, sono solo clandestini o immigrati, anche se nati qui. È inevitabile che poi l’insofferenza sfoci in rivolta, come quella che sono riusciti a filmare a Trapani: il fumo che sale al cielo, come le grida degli uomini che chiedono vanamente di essere portati all’ufficio immigrazione dopo essere saliti sopra i cancelli. Ciò in cui si spera è che si trovi un’alternativa ai C.I.E.: non è detenzione carceraria, ma detenzione amministrativa; qual è la differenza se si è rinchiusi in celle con i poliziotti che portano a fianco i manganelli? Il regista, Alessio Genovese,di Trapani, conosciuto in ambito internazionale, ha una conoscenza diretta dello stesso centro; ha voluto raccontare questa storia per l’esigenza di rendere noto tutto questo. Nei  suoi reportage si è occupato soprattutto del Nord Africa, del Medio Oriente e in particolare dei rifugiati palestinesi.   Lavinia Consolato

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