La litania di un arbitro nella Germania riunificata

La litania di un arbitro nella Germania riunificata

Pierluigi Siclari

La litania di un arbitro nella Germania riunificata

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venerdì 11 Dicembre 2020 - 07:48

Nelle sue riflessioni l’arbitro si concentra sul contrasto tra la vera essenza di una dinamica e la sua percezione esteriore; non solo dinamiche di campo, ma anche sociali e politiche

È più un monologo teatrale che un romanzo Litania di un arbitro, di Thomas Brussig, uscito nel 2007 in Germania e solo diversi anni dopo in Italia.

Nelle circa settanta pagine che compongono l’opera, quella del narratore sarà l’unica voce che leggeremo, anche quando riporterà i dialoghi con la moglie, il suocero, o altri personaggi che compariranno fugacemente.

Litania di un arbitro, di Thomas Brussig

Che la lettura si concentrerà sullo smontare la staticità di certi ruoli lo capiamo fin dalle primissime pagine. Quando il narratore entra in scena iniziando a raccontare, infatti, è appena uscito dal tribunale, da un processo in cui compariva sia come querelante che per conto dell’imputato; un processo che avrebbe vinto e perso contemporaneamente, anche se non come avrebbe desiderato.

Non solo onori

È un arbitro, naturalmente, un arbitro internazionale addirittura, che divide il campo con i fuoriclasse del calcio, ed è anche il titolare di un’agenzia assicurativa, settore nel quale essere arbitro è un vantaggio, perché i clienti non metterebbero mai in dubbio la sua serietà e la sua onestà. Ma nell’essere arbitro, come ci confida presto, non ci sono solo onori.

A Berlino Est, ai tempi della caduta del Muro, l’arbitraggio era l’incarnazione dell’orrore visto che era crollata ogni tipo di autorità; l’autorità stessa veniva ridicolizzata e ignorata, e gli arbitri non se la passavano tanto meglio. In ogni partita c’erano discussioni e proteste continue: una volta un giocatore, un ragazzino di dieci anni, contestò la mia decisione di concedere un calcio di punizione urlandomi contro <<noi siamo il popolo!>>. Era francamente troppo per cinque marchi orientali.

Campo, società e politica

Nelle sue riflessioni l’arbitro si concentra sul contrasto tra la vera essenza di una dinamica e la sua percezione esteriore; non solo dinamiche di campo, ma anche sociali e politiche.

È risaputo che la democrazia funziona fin quando non si devono prendere decisioni. La democrazia va bene per discutere, per trovare compromessi, per formare gruppi di lavoro e per esaminare questioni procedurali. Ma per decisioni tipo era dentro o fuori? non è adatta. Finché noi arbitri verremo insultati come categoria soffierà un vento democratico. L’insulto all’arbitro è in perfetta armonia con l’impostazione liberal-democratica, sì, senza l’insulto all’arbitro l’impostazione liberal-democratica non sarebbe affatto compiuta! L’insulto all’arbitro è la prova del nove, la cartina al tornasole della coscienza democratica.

Inattendibilità e umanità

Difficilmente nel corso della lettura si terrà sempre la stessa distanza dal narratore. L’uomo, infatti, è capace di suscitare ora empatia ora antipatia. È un narratore inattendibile, in quanto non sempre capiamo quanto di sincero ci sia nella sua autocritica, e quanto invece l’artificio retorico nasconda delle discutibili giustificazioni.

Del resto mentendo, o comunque omettendo parte della verità, il narratore ci mostra quello che viene ancora prima dell’arbitro e dell’assicuratore, cioè l’uomo, con i suoi difetti, le sue frustrazioni, le sicurezze faticosamente raggiunte e le domande ancora senza risposta.

Comunicazione e VAR

Il lettore italiano potrebbe essere stranito da alcuni passaggi dell’opera. Al riguardo, bisogna considerare due elementi. Il primo è che in Germania, a differenza che in Italia, gli arbitri possono rilasciare interviste e hanno un contatto quasi quotidiano coi media. Proprio sui media – e più in generale sul significato di comunicare – l’arbitro tornerà in più di un’occasione.

Naturalmente, comunicare è il contrario di ciò che vuole darsi a intendere. Che comunicare significhi farsi capire lo pensano al massimo gli autori dei dizionari. In realtà comunicare vuol dire non farsi capire o farsi non capire. Quando si tratta di occultare o tenere segreto qualcosa ci si rivolge agli esperti della comunicazione. Quando qualcosa va deformato, abbellito o presentato in modo parziale o va inventato di sana pianta, allora si dice che deve essere comunicato all’esterno. E quando la verità viene alla luce, quando qualcosa viene descritto per come si è svolto realmente, allora si parla di disastro della comunicazione. La comunicazione ha in realtà poco a che fare con la comunicazione che se un extraterrestre dovesse dedurre il significato della parola comunicazione dall’uso che se ne fa lo tradurrebbe con <<mentire>> o con un più metaforico <<profumare con la merda>>.

Il secondo elemento è che ai tempi del narratore ancora non era stato introdotto l’uso della tecnologia in campo, e in tal senso il pensiero dell’arbitro può essere considerato quasi una profezia.

L’ottanta per cento delle decisioni sbagliate non verrebbero prese se si volesse risolvere il problema alla radice. La tecnologia c’è. Ma l’incertezza, il fattore umano, l’errore sono voluti. Si vuole che ci siano decisioni sbagliate. Perché producono eccitazione. E l’eccitazione è il vero motore del calcio. La gente segue il calcio per eccitarsi, e le decisioni sbagliate sono qualcosa per cui ci si può eccitare anche a distanza di anni, di decenni. Per questo non c’è niente con cui un l’arbitro possa rendere un servizio migliore al calcio se non con una decisione sbagliata. Le decisioni sbagliate sono la cosa più preziosa che l’arbitro possa offrire al calcio.

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