"La macchia umana" di Roth, ovvero l’offesa pretestuosa

“La macchia umana” di Roth, ovvero l’offesa pretestuosa

Giacomo Maria Arrigo

“La macchia umana” di Roth, ovvero l’offesa pretestuosa

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venerdì 19 Febbraio 2021 - 09:49

Definito il miglior romanzo di Philip Roth, "La macchia umana" è una denuncia della nuova intolleranza e un inno alla libertà di pensiero.

Un libro scritto nel 2000, a inizio del millennio, e che suona come una profezia sui tempi che viviamo. La macchia umana di Philip Roth è lo specchio della nostra epoca, una denuncia della nuova intolleranza e un inno alla libertà di pensiero, nonché una presa di posizione contro qualsiasi vittimismo o lamentela sociale che sia frutto di un semplice sentimento talvolta pretestuoso, quello del sentirsi offesi. E il tutto in uno stile intimo à la Roth: il flusso di coscienza dei personaggi, il richiamo a tempi passati e il timore per quelli futuri si condensano intorno a un evento e ne fanno emergere la complessità e l’ambiguità di fondo – e il continuo, inevitabile sprofondare, come nelle sabbie mobili, ogniqualvolta si provi a venirne fuori. Infine, il protagonista, il professore universitario Coleman Silk, ne rimane mortalmente invischiato.

«Le streghe del perbenismo e gli spiriti maligni della political correctness» (così recita la quarta di copertina dell’edizione Einaudi) infestano il professor Silk che, un giorno, per sbaglio, pronuncia una parola che non doveva pronunciare. Spooks. “Spettri”. La parola è riferita a due studenti afro-americani che lui, Silk, non aveva però mai visto, ignorando perciò che fossero neri. Oltre a significare “spettri”, infatti, “spooks” ha un significato denigratorio nei confronti delle persone di colore. Ed è così che i due studenti protestano, appoggiati via via da tutta la facoltà e poi dal rettore. Alla fine Silk è costretto a lasciare la cattedra, disconosciuto dai suoi colleghi, sconfessato in quanto razzista, bollato come un errore del sistema.

A un certo punto un personaggio afro-americano – che, per chi non avesse letto il libro, non verrà qui rivelato – sbotta dicendo: «Non credo di avere mai sentito una cosa più stupida di questa, perpetrata da un’istituzione il cui compito è promuovere l’istruzione superiore. […] Ogni epoca ha le sue autorità reazionarie, ed evidentemente qui ad Athena [il college] sono al culmine della popolarità. Bisogna avere una paura così terribile di ogni parola che si usa? […] L’anno in cui io sono andata in pensione, dei ragazzi venivano da me a dirmi che, per il Mese della Storia dei Neri, avrebbero letto solo una biografia di un nero scritta da un nero. Che differenza c’è, chiedevo loro, se l’autore è nero o bianco?»

Il meccanismo dietro a quei ragionamenti che, per convenzione, vengono spesso etichettati come politically correct è, però, non solo appannaggio delle minoranze etniche o religiose. Un esempio che riguarda l’Italia, per farne uno, è il governo Draghi: il 75% dei ministri è del Nord, e nessuno della Sicilia né della Calabria. Molti hanno protestato, e sui social le polemiche tardano a placarsi. Ma c’è veramente da sentirsi offesi?

La macchia umana di Roth indica la via della resistenza a quel sentimento sovente pretestuoso, l’offesa, spesso usato come un’arma politica o sociale, utile ad ostracizzare alcuni membri o a delegittimare determinati gruppi (o governi, come nel caso italiano). Quello che il Premio Nobel per la letteratura, Nadine Gordimer, ha definito il miglior romanzo di Philip Roth, descrive un’umanità complessa, multiforme, e quella cappa soffocante che tronca vite e falcia carriere.

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