Alla Laudamo di Messina l'accurata regia di Daniele Gonciaruk dal romanzo di Bufalino. Interpreti convincenti
MESSINA – Il 7 novembre in cartellone la “mise en scène”, presso la Sala Laudamo messinese, della performance “Le menzogne della notte”, in prima assoluta. Il tutto per la sezione “Disvelamenti” della Stagione 2025/2026, con l’accurata direzione di Daniele Gonciaruk, per l’E.A.R. Centro di Produzione.
Tratta dal noto romanzo di Gesualdo Bufalino, dal titolo omonimo, con adattamento teatrale originale che, come la resa attoriale, si è altresì attestato allo stesso Artista, unitamente all’architettura musicale.
L’opera si è avvalsa delle interpretazioni convincenti di Angelica Rossi, Roberta Sciarone, Elide Pane, Christian Mangano, Marcello Violi e Claudio Campagna. Ulteriori espressioni attoriali quelle di Alessio Pettinato, Eugenio Meo, Sergio Foscari, Alessandro Santoro, Federico Pandolfino e Angelo Centorrino.
E, ancora, il consono studio delle luci di Giovanni Rando, la appropriata scenografia curata dal laboratorio del Liceo Artistico Statale messinese E. Basile, con la collaborazione di alcuni docenti e per gli indovinati costumi ci si è affidati alla consulenza di Rosalba Orlando.
Se lo script di Bufalino ha una sua propria configurazione, prevalentemente barocca, e incentra gli accadimenti nel secolo ottocentesco, l’odierna trasposizione ha necessariamente dovuto operare per sottrazione e si è scelto un tempo un po’ più prossimo, forse con riferimento al Novecento, per meglio approcciarsi ai fruitori della nostra epoca. La prima edizione dell’opera letteraria è del 1988, è articolata in XIV capitoli, copre l’arco di una notte in ambientazione indefinita su uno scoglio di tufi, ove insiste un carcere “tout court”, dove i quattro protagonisti sono rinchiusi, un luogo angusto, celle minuscole, quattro tavolacci e un corridoio, ristretto campo di battaglia ove trovano sfogo “cupe collere e disperate lusinghe”.
Fra i personaggi principali il Governatore della prigione Consalvo De Ritis, il barone Corrado Ingafù, uno dei quattro Evangelisti, il soldato Agesilao degli Incerti, il sedicente poeta Saglimbeni e il giovane Narciso Lucifora, oltrechè altri minori aiutanti del Governatore.
La struttura sintattica risulta semplice, pur se ciascun capitolo – introduttivo, descrittivo, di racconto delle storie, di riflessione e di scoperta della verità sui prigionieri attraverso la lettera e il testamento del Governatore – ha un linguaggio raffinato, aulico ma non pomposo, con descrizioni dettagliate e una compiuta introspezione, talchè il romanzo risulta assimilabile a quelli di Victor Hugo.
Così il narratore siciliano tocca punte d’eccellenza con questo romanzo che si snoda sullo sfondo cronotopico vago di un risorgimento borbonico in un’isola penitenziaria (siciliana?) con focus sulla notte conclusiva delle esistenze di quattro patrioti rivoluzionari e l’escamotage della proposta di raccontarci la verità, forse confidando di potere avere salva la vita. È di certo un colto capolavoro, che cita la struttura del Decamerone, avvalendosi di invenzioni letterarie, contiene riferimenti a Orazio, Manzoni, Leopardi e Stendhal, è sorretto da una storia potente e riesce a tratteggiare immagini raffinate; il finale è destabilizzante. Correlazioni evidenti anche con “Dicerie dell’untore”, per l’essere i personaggi di entrambe le opere ai margini, in un mondo che li rifiuta e per avere una struttura – cornice che si avvale dei racconti minori per giungere all’esito tragico.
La ricerca ha centro focale nell”’hic et nunc” del carcere, ma ciascuna narrazione vuole ricreare il caos della vita in lotta con la morte. È indiscusso lo scandaglio delle identità in personalità divise, con echi della frammentazione dell’io in Pirandello e delle molteplici identità e punti di vista in Borges.
La pièce in parola andrà in scena ogni giorno fino al 16 novembre, in una varietà di orari, per venire incontro alla domanda di pubblici diversificati, ivi compresi gli Istituti scolastici, quali naturali destinatari.
La storia assai evocativa anche qui si snoda attorno all’attesa dell’alba e della esecuzione della condanna a morte dei quattro rivoluzionari.
Non siamo di fronte ad un tempo passivo, di resa, ma di un “esperar”, quale esplicazione dell’aspettare…. non la mancanza di parola, il silenzio, ma le loro narrazioni che, a mezzo dell’arma dell’inganno, potrebbero essere viatico di sopravvivenza.
Una esemplare sfida, con il quartetto quale artefice, ove gli stessi sfidanti sono attivamente parte in causa anche nei confronti degli spettatori, che sono stati, come richiesto, chiamati a contribuire all’espressione della sentenza finale, formulando il proprio personale convincimento, che ha presupposto un interiore rovello, proprio in un gioco di specchi, ove ciascuno degli astanti interpellati (quelli delle prime file) si è riferito al proprio modus di stare al mondo.
La cosiddetta quarta parete non è più e al pubblico, parte in causa, è toccato interrogarsi anche sul proprio ruolo nel palcoscenico dell’esistenza, che può virare fra le grandi categorie delle vittime, dei carnefici, degli eroi o dei meri burocrati esecutori.
Non un mero giudizio, quindi, sui casi afferenti i quattro condannati, dei quali si è dovuto stabilire se le loro vite siano state espressione di viltà o al contrario di eroismo, di tradimento o sacrificio.
Una rilettura dell’opera che, nel rispetto dell’originale vocazione bufaliniana, si è spinta alla attualizzazione del senso testuale, per conferire alla trasposizione teatrale peculiare incisività, attraverso schemi e linguaggi più consoni ai nostri tempi.
Il processo si è fatto così fulcro della rappresentazione di quella che Gonciaruk ha appellato una “favola nera conficcata nel cuore del Novecento”.
E la parola diviene centrale nell’allestito campo di battaglia, potendo generare morte o salvezza, a seguito della capacità di convincere gli spettatori coinvolti, sollecitati, nel pronunciare il verdetto, a dover scandagliare prima i meandri della propria psiche, giostrando fra la propria viltà o l’eroismo, il tradimento o la scelta di soccombere per fedeltà alle proprie idee.
Facilmente allora il pubblico è stato trascinato, ha dovuto calare la comoda maschera che rende più facile la convivenza civile e operare una valutazione su chi ha reputato più degno fra le fittizie performance dell’esistenza a essere chiamato umano.
Gli accadimenti in narrazione sono stati solo espediente per il disvelamento del vero, in un gioco mortale che tira tutti noi dentro, costringendoci alla ricerca della autenticità.
La pièce è stata resa in guisa altrettanto intrigante rispetto al modello originale e, muovendo da quel romanzo vincitore del Premio Strega, ha coinvolto nell’opzione di calcare magistralmente la mano proprio sul labile confine fra verità e menzogna e sulla necessità per ognuno di cogliere con sincerità quale sia il percorso esistenziale che si vuole e si può portare avanti, assumendosene le conseguenze.
L’operazione – coerenza è apparsa appropriata proprio per la duplicità di lettura alla quale le categorie di rimando si prestano. Il telaio della rappresentazione è in definitiva assai ben costruito e la resa complessiva esuberante e fruttuosa nel delineare questa serata d’addio in un tempo sospeso, ove Consalvo de Ritis è fautore di interrogativi sul senso dell’esistenza, rendendo l’opera stessa un omaggio al lettore, con echi del Pere Goriot di Balzac e sottolineando il dubbio fra realtà e finzione e come la scrittura serva a smascherare le deformazioni di una verità imposta o asservita all’utilitarismo o parziale. Già quello che è stato definito “non romanzo” o una “improvvisata piece – teatrale”, e chiamato da Bufalino stesso “giallo metafisico”, “fantasia storica” e “moralità leggendaria”, ove quel che risalta è il dissolvimento in un gioco di specchi infinito, di quattro rivoluzionari, condannati per essere stati in combutta con il Padre Eterno e incitati dal Governatore a trascorrere quelle ore notturne che li separano dalla decollazione, con promessa di liberazione, a patto che al termine uno di loro racconti la verità sul loro leader.
Seguono novelle assai poco veridiche e nessuno cederà al ricatto, le esecuzioni avranno luogo e dal testamento registrato dal De Ritis prima del suicidio, emergeranno le falsità delle narrazioni.
Il Padre Eterno è mai esistito? Era De Ritis stesso? La colpevolezza dei condannati era certa? “Apocrifi noi tutti”, per dirla con il Governatore, “fantocci in piedi moltiplicati da due specchi che si fronteggiano”.
Importante anche la partecipazione di personaggi che, in prospettiva corale, completano la rappresentazione, come la Burocrazia, il barbiere, l’aiutante del boia, il boia stesso e l’enigmatico Frate Cirillo.
Complessivamente questo adattamento non può che riportare valutazione positiva per l’essersi degnamente confrontato con uno dei pilastri della letteratura siciliana, nel riuscito tentativo di operarne una riduzione teatrale di certo assai complessa.
E il pubblico ha mostrato giustamente convinto gradimento con ripetuti applausi anche a scena aperta.
