"Magog", una storia di migrazione e coraggio INTERVISTA

“Magog”, una storia di migrazione e coraggio INTERVISTA

Emanuela Giorgianni

“Magog”, una storia di migrazione e coraggio INTERVISTA

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lunedì 22 Agosto 2022 - 16:00

Il libro, del messinese Paolo Ponzù Donato, ha vinto il premio Nazionale Dario Galli. È la storia di due giovani migranti, che poi diventa la nostra e quella di tutti

Magog è una storia itinerante. Una storia di coraggio, e di paura; una storia di amore, e di dolore; la storia di due migranti, ma raccontata da un messinese che ha voluto trasformare i suoi occhi in quelli di chi è costretto a fuggire dalla propria terra, ha voluto offrir loro una voce, dar forma e contenuto al loro vissuto.

Paolo Ponzù Donato è messinese, dottore di ricerca in Letteratura e Filologia italiana presso l’Università di Firenze. Insieme a sua sorella Simona vivono a Riace un’esperienza che cambia le loro vite, da qui nasce Magog (di cui Simona Ponzù Donato cura l’illustrazione di copertina). Il libro, edito da Grafiche’ editori, ha ottenuto un grande successo, vincendo  il Premio Nazionale Dario Galli e venendo presentato al Salone del Libro di Torino.

Magog

Amira racconta la storia sua e del suo amico Nana, giovani ghanesi costretti ad andare via, in un viaggio reale e al tempo stesso simbolico. A delineare il percorso tracciato dalla loro storia sono i quattro elementi che danno il titolo alle quattro parti del romanzo: l’acqua del Canale di Sicilia, dove fa naufragio la carretta su cui viaggiano in cerca di futuro; l’aria nuova di Riace, dove vengono accolti e, sia pur per breve tempo, tornano a respirare; la terra della piana di Gioia Tauro che sono costretti a coltivare dopo essere precipitati nelle mani della ’ndrangheta e, infine, il fuoco della rivolta di San Ferdinando, da cui verrà morte ma anche una nuova speranza.

Con Magog si piange e si ride, si cammina insieme, tra realtà e finzione, in un viaggio emozionante, doloroso, ma necessario. Tra percorsi familiari, uniti a colori, suoni e odori che appaiono totalmente diversi perché descritti dagli occhi di chi li vede per la prima volta.

Storie che si intrecciano

Chi sono alla fine i veri barbari? Loro che arrivano da noi o noi che gli rinchiudiamo nei centri di accoglienza? E sono loro i veri migranti? Cercano una terra così come facciamo noi, fuggono dalla loro che gli è stata privata, così come l’ndrangheta l’ha tolta ai calabresi.

Ecco, quindi, che le storie si intrecciano, e quella di Nana e Amira racconta anche la nostra di storia, e quella di tutti. Magog sono loro e siamo noi; una terra dimenticata da Dio da cui però si può ripartire, perché la sua bellezza si apre al futuro. Con questa speranza, infatti, si conclude la storia.

Ne abbiamo parlato con il suo autore Paolo Ponzù Donato.

L’intervista

Partiamo dal titolo. Magog. È un termine biblico. Ma “Gog” è anche un libro di Giovanni Papini. Come mai questa scelta?

Vi è anche un modo di dire italiano che deriva da Gog e Magog: “andare in goga e magoga”, vuol dire addentrarsi in posti lontani, all’estremità del mondo. E “Gog” è il titolo del libro di questo autore non tanto ricordato, ma che io apprezzo moltissimo. Papini fa una descrizione sarcastica della società umana nell’epoca capitalistica, io ho voluto imitare questo suo sguardo su certi aspetti del nostro mondo, osservandoli tramite gli occhi dei miei protagonisti.

L’espressione biblica, invece, è legata alla connotazione negativa che ha il popolo così chiamato nell’Apocalisse di San Giovanni. Saranno questi i popoli che, secondo la visione apocalittica, spalleggeranno Satana nell’ultima battaglia contro Cristo.

Vi è, dunque, un doppio riferimento: all’illustre predecessore letterario italiano e alla connotazione negativa data nel contesto biblico ad un popolo lontano e, quindi, considerato malvagio.

Chi è, quindi, questo Magog ? Sono loro o siamo noi piuttosto?

Il bisogno di dare vita a questa storia è legato a tanti aspetti, ma a spingermi a scriverne è stata, soprattutto, la scarsa presenza di opere di finzione viste dalla prospettiva dello straniero, del migrante. Siamo noi che parliamo di loro, sempre dalla nostra prospettiva. Io volevo mettere in luce come non solo loro sono stranieri per noi, ma anche noi appariamo stranieri a loro; volevo guardare le cose dal punto di vista di un ragazzo adolescente che viene da lontano. Non specifico nel dettaglio la provenienza dei miei protagonisti, sappiamo solo che sono africani. Ho la presunzione di dire che il loro sguardo apparentemente da alieno è, in realtà, molto preciso; dice di noi molto di più di quanto siamo in grado di dire di noi stessi. I protagonisti sono Amira e Nana, la storia è la loro, ma in realtà si parla di noi attraverso loro.

Il libro nasce da un’esperienza fatta a Riace insieme a sua sorella, che ha curato la copertina. Come è andata?

Io, come tutti, ho conosciuto Riace dalle cronache, dalle vicende di Mimmo Lucano; poi ho ricevuto la testimonianza diretta da mia sorella Simona, artista e attivista che ha fatto tanto lì. Lei mi ha coinvolto e mi ha proposto di scrivere qualcosa su quella realtà. Anziché fare un libro solo su Riace, ho preferito scrivere una storia che parlasse in modo più ampio del percorso di queste persone, percorso del quale Riace è solo una tappa. E Mimmo Lucano diviene, così, uno dei miei personaggi principali. La narrazione è il risultato di una contaminazione tra esperienza reale e finzionale, sono tante le storie che qui si intrecciano, cronologicamente vicine o lontane ma legate da una stessa radice.

Magog vince il premio Dario Galli, viene presentato al Salone del Libro, è protagonista di tante presentazioni. Come sta vivendo questo successo?

Fortuna volle che l’anno scorso mandai il mio manoscritto al premio Dario Galli, la cui edizione precedente era stata vinta da un altro messinese: Angelo Coco, con il bel thriller Notturno Veneziano. Il mio libro viene premiato con la pubblicazione, grazie a questa piccola e coraggiosa casa editrice indipendente Grafiche’ editori, che l’ha presentato anche allo stand calabrese del Salone del Libro di Torino. Sono grato a loro e mia sorella per averci creduto e averlo sostenuto prima ancora di me, non potrei essere più felice.

Tra le ultime presentazioni del libro ve ne è una molto speciale svoltasi proprio a Riace. In quell’occasione, alla presenza di Mimmo Lucano, è intervenuto anche un giovane artista africano, Ebrima Danso. Cosa ha significato per lei?

Già solo avere accanto Mimmo Lucano è stato un onore enorme. Non è banale per un autore avere accanto il personaggio che racconta nel suo libro. Ho scritto il libro prima dell’assurda sentenza che lo condanna e prima di averlo mai incontrato fisicamente. In Magog, Lucano si presenta sotto mentite spoglie perchè la sua accoglienza non ha nome. Durante la presentazione, mi ha detto di essersi riconosciuto in questo mio discorso meta letterario, di aver empatizzato molto con quanto descritto. È stata una soddisfazione enorme. E, come se non bastasse, ha riempito ancora più di valore la mia storia la presenza di un’artista bravissimo, Ebrima Danso. Ebrima ha vissuto queste cose sulla sua pelle, non le ha solo immaginate come me, nella mia comodità occidentale. Ha affrontato la traversata, è stato salvato, ora si trova nella comunità di Don Massimo Biancalani. Lui racconta la sua storia, la migrazione, i barconi, l’Africa, con immagini dalla grande forza, e con un realismo sempre personale e unico. Lui ha riconosciuto la veridicità di ciò che ho solo immaginato, ha condiviso lo sguardo stupefatto che ho messo in tante cose e non potrei esserne più orgoglioso.

Magog è una storia importante. Un viaggio itinerante, che parla di migrazione, ma non solo. Quale è il valore del raccontare storie? Perché vi è il bisogno di raccontarle?

Raccontare è una necessità. Scrivendo questo libro mi sono avvicinato anche alla storia di Giuseppe Valarioti, un politico comunista di Rosarno ma, prima ancora, un giovane insegnante, assassinato nel 1980 dall’ndrangheta. I mandanti non furono mai individuati. Un giovane trentenne ammazzato perché diceva una cosa semplice e attualissima: la terra doveva andare a chi la coltivava. La sua rivolta era contro i capolari. Ha avuto la forza di non piegarsi alle minacce, fino a perdere la vita. La sua tragedia non è conosciuta neanche dai calabresi; considerata troppo legata ad ideologie politiche, si è cercato di metterla da parte. Scoprirla, invece, mi ha permesso di raccontare qualcosa che non si può dimenticare. Mi ha permesso di avvicinare i lettori, tramite la finzione letteraria e con il sostegno della sua compagna Carmela Ferro, a qualcosa di cui non si parla ma si deve parlare. Questo è il grande valore delle opere di finzione: riportare alla luce, per un pubblico che ha la sensibilità di recepirle, certe storie che altrimenti resterebbero sospese e ignorate. La sua, inoltre, non è una vicenda slegata da quella di Riace; quando i migranti sono costretti, infatti, a lasciare queste terra, si apre spesso dinanzi a loro un futuro di clandestinità. Ma io immagino Valarioti partecipare alle lotte nella piana per difendere questi nuovi ultimi.

Le storie, poi, devono dare speranza; non volevo che la mia terminasse senza uno spiraglio di luce. L’idea di fondo è che noi occidentali, trionfo dell’homo sapiens, abbiamo dimenticato di essere anche homo amans; noi ex sapiens occidentali abbiamo perduto la consapevolezza, sia essa politica o sia essa semplicemente umana, di ciò che siamo e sono, invece, proprio questi presunti barbari a portarcela insegnare di nuovo.

La letteratura deve parlare a tutte le coscienze, risvegliare l’umanità laddove è un po’ sopita. Così volevo potesse fare la mia scrittura. Ovviamente lo dico senza la pretesa di insegnare nulla, il mio non è un reportage, nè un saggio, con la serietà documentaria che ne deriverebbe. Io metto insieme certi fatti, date ed eventi anche non contemporanei; la chiusura Riace, la rivolta di San Ferdinando. Solo per dimostrare che abbiamo tutti un destino comune.

L’illustrazione di mia sorella rappresenta bene questa idea: vi è una sirena che dal mare sorregge una barca che trasporta delle figure. Non sono tanto i migranti quanto l’intera umanità, siamo tutti su questa piccola barca, condivamo lo stesso destino.

Come mai, secondo lei, la letteratura ci permette di avvicinarci anche a realtà che possiamo sentire lontane, ci permette di comprenderle meglio e toccarle con mano? Come mai ci dona un’empatia che non sempre proviamo nella vita di tutti i giorni?

L’opera d’arte, di qualsiasi tipo, deve far provare emozioni, altrimenti non è tale. Deve porre domande, generare dubbi e questioni. Questo è il dono dell’arte, in questo modo risveglia le coscienze e cambia il mondo. Dove non c’è cultura c’è mafia, è forse un caso? La cultura cambia le cose e io sono profondamente convinto che l’Italia sappia accoglierla, che i giovani italiani la cerchino e desiderino, bisogna solo darle spazio; permettere il dialogo tra il pubblico e gli intellettuali.

La forza delle idee può farci superare qualsiasi difficoltà. Un libro, una volta svoltata l’ultima pagina, muore se non porta a questo. Se riesce a farlo, invece, diventa eterno, unisce, collega, trasforma il mondo.

Per concludere, quali sono i suoi prossimi progetti?

Scrivere una storia del genere mi ha cambiato. Da filologo posso dire che ogni libro deve avere un perché, un conto è scriverlo, un conto pubblicarlo, è un salto nel vuoto non sempre automatico e deve avere una forte ragione alla base. Sempre da filologo mi chiedo cosa ha senso pubblicare adesso e cosa no, non ho ancora pensato ad una storia precisa, ma sicuramente voglio continuare a raccontare il nostro modo di essere con uno sguardo altro, distaccato, che consenta il disvelamento di qualcosa che non sappiamo neanche noi su noi stessi. Tutti mi hanno detto di scrivere, di non mollare e non voglio farlo. Questa storia mi ha insegnato tanto, mi ha insegnato il ritmo, la matematica, fondamentali nella scrittura: non puoi portare l’attenzione del lettore fino al parossismo, le descrizioni vanno dosate con il dialogo, dando concretezza agli avvenimenti, presentando i personaggi per quello che sono e pensano, come una sceneggiatura o un canovaccio teatrale. Voglio migliorarmi e continuare a sperimentare.

Conoscere Mimmo Lucano, poi, e parlarci mi ha permesso di toccare con mano il suo senso forte di accoglienza. Nonostante quello che sta vivendo, mi ha sorpreso e ho ammirato il coraggio della semplicità di una persona che non si è arricchita, non ha approfittato in nessun modo della notorietà raggiunta e, pur sopportando una spada di damocle sul capo, continua a far sentire tutti accolti. Questo vale più di mille parole. Lui è una testimonianza concreta, è un’esempio con la sua stessa vita. Si è parlato tanto di lui, ma ora è tutto fermo. La fiction Rai su di lui con Beppe Fiorello è stata interrotta per via delle vicende giudiziarie. Speriamo che la giustizia faccia il suo corso e questa condanna venga evocata. Grida davvero all’assurdo. Ecco a me piacerebbe parlare ancora di questo; fare un appello alla nostra umanità, come ha fatto Lucano, ascoltando il grido “restiamo umani”.

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