"Philomena", il film premiato al festival di Venezia per la miglior sceneggiatura

“Philomena”, il film premiato al festival di Venezia per la miglior sceneggiatura

Tosi Siragusa

“Philomena”, il film premiato al festival di Venezia per la miglior sceneggiatura

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martedì 31 Dicembre 2013 - 12:00

“Philomena”, in 98 palpitanti minuti, con sfumature sottili ed intensa partecipazione emotiva, tratteggia ancora meglio quelle vite vere, attraverso una strepitosa Judi Dench – una Philomena di grande suggestione – un espressivo Michael, interpretato da Ruth Mc Cabe e Steve Coogan, il giornalista Martin, prima emotivamente distaccato e via via sempre più coinvolto

Dal riuscito testo del giornalista Martin Sixsmith “The lost child of Philomena Lee”, incentrato sul dramma vissuto negli anni ’50 in Irlanda da giovani ragazze “perdute”, abbandonate dalle famiglie e costrette a trovare ricovero nel convento-prigione di Roscrea, ove dovevano ricambiare con servigi pesantissimi la loro permanenza, la possibilità i partorire e condurre una grama esistenza con i loro bimbi (fino alla loro vendita “in adozione” a ricchi americani da parte delle religiose), Stephen Frears ha diretto “Philomena”, opera intensa di notevole valore espressivo.

Gli interpreti principali sono Judi Dench (Philomena) e Steve Coogan (Martin), che risultano quasi subito convincenti ed il lungometraggio si regge sul confronto-scontro fra due esseri umani estremamente diversi per modo di essere e cultura (l’empatica Philomena non è colta e la sua conversazione è infarcita di luoghi comuni, lo scettico e forbito Martin, invece, vorrebbe scrivere sulla storia russa ed è sprezzante nei confronti dei fatti di cronaca) e convinzioni religiose (Philomena non ha perso la fede nonostante la sottrazione del figlio Antony ed i decenni passati a ricordarlo e cercarlo incessantemente, mentre l’ateo Martin è depresso, sfiduciato e caustico, avendo vissuto sulla propria pelle la doppiezza di certi ambienti politici che, con i loro giochi di potere, lo hanno silurato).

I due protagonisti riescono, però, malgrado tutto, ad andare al di là delle barriere erette dal pregiudizio della diversità ed a comunicare, per rendere note, attraverso lo script, la dolorosissima vicenda di Philomena, vittima del moralismo bigotto e della doppia morale delle istituzioni cattoliche irlandesi (la figura della beghina madre superiora Hildegard è una maschera di fissità interiore ed ottusa chiusura).

Philomena che parla alla Madonna o esprime preoccupazione che il figlio in America possa essere divenuto obeso, che vorrebbe usare lo pseudonimo “Anna Bolena” per raccontare la sua storia, è spiazzante e colma di grazia e consente, con la divulgazione del suo vissuto, che altre donne, ugualmente coinvolte, possano far conoscere il loro “vergognoso passato”.

Attraverso impietosi flashback (come quelli del duro lavoro di lavandaia e del parto podalico senza sedazione) e, prima ancora, attraverso i ricordi “deformati” dell’incontro fra la giovanissima Philomena (che nulla sapeva di sesso) ed il ragazzo che la renderà madre, le descritte sensazioni piacevoli di quell’esperienza carnale ed i momenti sereni passati in convento con il piccolo Antony (fino alla brutale sottrazione) giungendo alla vita attuale di Philomena (che è comunque andata avanti), il film vuole dimostrare che anche le esistenze delle piccole donne possano offrire commoventi sorprese attraverso un tardivo riscatto.

L’altra faccia della cattolicissima Irlanda, impresentabile, è quella dell’istituzione religiosa che, dopo essersi macchiata del crimine dei ragazzi venduti, ha, sempre con maniere fintamente cortesi (te e torta) e depistanti, tentato di occultare il tutto e rendere impossibile qualunque ritrovamento.

Le istituzioni ecclesiastiche possono essere strumento di inaridimento del cuore, ove trasformino la fede in fanatismo sessuofobo: si intravede, infatti, una benevolenza solo apparente, che cerca di seppellire il pesante passato, perpetuando con ciò la discriminazione di classe, sorda in realtà al dolore delle vittime. Il triste esito della ricerca americana non compromette il finale, nel momento in cui Philomena ha comunque contezza che il suo Antony, divenuto Michael Hess, era molto legato alle sue radici ed aveva tentato di ritrovarla.

L’epilogo, dunque, pur non presentando il classico lieto fine, predispone equilibri pacificanti, che ristabiliscono un certo ordine etico. Si coglie la critica, neanche sottesa, al concetto tradizionale di morale cattolica, laddove è perbenista e falsa. Già in “Magdalene” nel 2002 erano state portate sul grande schermo le storie vere di madri alla ricerca dei figli sottratti loro in modi atroci da religiose irlandesi, rese cieche da una fede distorta, ma “Philomena”, in 98 palpitanti minuti, con sfumature sottili ed intensa partecipazione emotiva, tratteggia ancora meglio quelle vite vere, attraverso una strepitosa Judi Dench – una Philomena di grande suggestione – un espressivo Michael, interpretato da Ruth Mc Cabe e Steve Coogan, il giornalista Martin, prima emotivamente distaccato e via via sempre più coinvolto.

Citazione particolare merita la splendida fotografia, soprattutto quando immortala il piccolo mondo contaminato dai pregiudizi, rappresentato come racchiuso entro le mura dell’orfanotrofio (Robbie Ryan è il bravo direttore della fotografia). La sognante colonna sonora del pluricandidato Alexandre Deplat riesce ad essere altamente evocativa.

Trattasi in conclusione di un’opera drammatica, che a tratti riesce a strappare sorrisi e non scade mai nel mieloso, recitata con fervore ed orchestrata con timbri efficaci. Si esalta la forza dell’amore materno e filiale e di valori universali quali il perdono, la tolleranza ed il rispetto, laddove un’umile donna, di convinta fede cattolica, riesce ad accettare immediatamente ed amorevolmente aspetti difficili dell’identità sessuale del figlio tardivamente ritrovato ed i suoi affetti non convenzionali.

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