Il malato immaginario di Molière secondo Gabriele Lavia

Il malato immaginario di Molière secondo Gabriele Lavia

Il malato immaginario di Molière secondo Gabriele Lavia

giovedì 31 Marzo 2011 - 15:04

Lo spettacolo molto applaudito chiude la stagione teatrale del Vittorio Emanuele

Mistero e morte segnano i testi teatrali di alcuni grandi drammaturghi prima della loro dipartita. E’ così per I gigantii della montagna di Pirandello, La Tempesta di Shakespeare e pure per questa versione de Il malato immaginario di Molière (che muore nel 1673 alla 4ª replica di questa commedia) nella traduzione di Chiara Marchi e per la quale Gabriele Lavia, in vestaglia, sciarpa e zucchetto in testa, oltre che interpretare superbamente il ruolo di Argante, ha compiuto un accurato lavoro di regia. Innestandovi dei brani di Malone muore di Beckett, che il “malato” del titolo ascolta su un nastro magnetico con una maniacalità che ricorda Krapp e che registra qui il numero delle purghe clisteri e costi, quelle prescritte da un nugolo di grandi maestri somari della medicina. Ci sarebbe pure quel passo di Aspettando Godot in cui un arrabbiato Pozzo recita che gli uomini “partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, ed è subito notte”, ma non è incluso nello spettacolo, perché già troppo odorante di profumi beckettiani. In sostanza Lavia calca volutamente la mano sul versante della “morte” per controbilanciare una commedia che è una sorta di farsa noir, mista a musica e danza. Ecco dunque uno spazio scenico vuoto (disegnato da Alessandro Camera) in cui Lavia-Argante vive saltando dal suo tavolino bianco con registratore alla tazza del cesso, con puntate sul suo lettino quando è colto da un’ipocondria più profonda. Calano poi dall’alto i soliti grandi specchi che vanno ad occupare il fondo scena e le quinte laterali, simboleggiando diavolerie o arcani esoterici che deformano la realtà in tanti pezzi quanti sono le verità vere. Quel “penso dunque sono” di Cartesio, equivale per Argante a “sono malato dunque esisto”, oppure “esisto e dunque sono malato”. Una malattia la sua che è il mal di vivere di ieri, di oggi, di sempre, in cui c’è sempre qualcuno (qui la classe medica) che spinge a farti sentire peggio. Dottori che Lavia vede come dei gallinacci con tacchi a spillo al posto degli speroni, somiglianti a dei cartoons o fumetti ( i costumi sono di Andrea Viotti) che aprono la bocca solo per dire delle conneries. Fra i protagonisti spicca l’Angelica di Lucia Lavia (figlia di cotanto padre e di Monica Guerritore) una figurina danzante al ritmo di rap, come del resto quello del suo amato Cleante (Andrea Macaluso); in evidenza pure la saggia e attenta cameriera Tonina di Barbara Begala e la fedifraga Belinda in guêpier (Giulia Galiani). E poi gli onomatopeici ruoli dei vari Dottor Diarreus e figlio Tommaso (Pietro Biondi e Michele Demaria), il professor Purgone (Mauro Mandolini), il farmacista Fetus (Alessandro Parise) il notaio Buonafede (giorgio Crisafi) e Beraldo fratello di Argante (Gianni De Lellis). Calorosi gli applausi finali per questo godibile spettacolo di tre ore con intervallo che chiude la stagione al Vittorio Emanuele con repliche sino a domenica pomeriggio.

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