«Questo è un paese senza verità, perché le verità fanno male»

«Questo è un paese senza verità, perché le verità fanno male»

«Questo è un paese senza verità, perché le verità fanno male»

lunedì 15 Febbraio 2010 - 16:22

L’inviato de L’Unità, Nicola Biondo, intervistato sul processo Mori e sul libro “Il Patto”

Ormai si è imposto sui media come il processo del papello, della trattativa fra stato e mafia, ma in realtà il processo Mori– del quale sono riprese le udienze a Palermo – vede come imputati il Generale Mario Mori e il Colonnello Mauro Obinu del Ros e riguarda la mancata cattura di Bernardo Provenzano che sarebbe dovuta scattare sulla indicazioni fornite dall’infiltrato Luigi Ilardo, mafioso catenese che decise di collaborare con la DIA ed in seguito venne assassinato. Un libro che ricostruisce con grande dovizia di particolari la vicenda di Ilardo, svelando e chiarendo la sua attività di infiltrato per la DIA, non senza lasciare sul piatto inquietanti interrogativi sulla classe politica italiana. Non è dunque un caso se l’accuratissimo libroIl Patto – Da Ciancimino a Dell’Utri. La trattativa Stato e mafia nel racconto inedito di un infiltrato (edizioni Chiarelettere; pp. 338; € 16), firmato dall’inviato de L’Unità, Nicola Biondo e da Sigfrido Ranucci(inviato RAI), stia riscuotendo tanto successo, raggiungendo in un lampo la seconda edizione.

Com’è nato questo libro e quanto tempo vi è occorso per consultare tutta l’imponente bibliografia di riferimento?

«L’idea che sta alla base del libro nasce nell’estate del 2008. Conoscevo Sigfrido da diversi anni e il caso volle che entrambi, da diversi anni, desideravamo scrivere la storia di Luigi Ilardo, una vicenda drammatica, significativa e soprattutto sconosciuta. Abbiamo cominciato a lavorarci nel novembre 2008 e dato che il processo Mori – che vede come imputati Mario Mori e Mauro Obinu del Ros per la mancata cattura di Bernardo Provenzano che sarebbe dovuta scattare sulle indicazioni fornite dallo stesso Ilardo – è cominciato nel luglio 2008, sentivamo il bisogno di un libro che potesse fungere da punto di riferimento di una vicenda quanto mai complessa».

Chi è Luigi Ilardo e perché avete voluto raccontare la sua storia?

«Ilardo era un mafioso catanese, appartenente alla famiglia dei Madonia di Caltanissetta, di Don Ciccio e suo figlio, Piddu. Proprio Piddu è stato uno dei capi della Cupola, accusato delle stragi in Sicilia e al nord d’Italia del ‘92/93. Ilardo era un mafioso di peso nei Madonia e nella Cosa Nostra catanese e dopo aver scontato circa dieci anni di prigione per sequestro di persona e reati associativi nel ’93 decise che il sacrificio umano legato a Cosa Nostra era sufficente. Non si pente ma propone alla DIA, nella persona di Gianni De Gennaro, di infiltrarsi dentro Cosa Nostra. In una lunga lettera afferma di essere in grado “di far ricostruire l’intera strategia stragista del 92/93”. Dal ’94 Ilardo ottiene un permesso premio ed esce dal carcere, diventando un infiltrato per conto della DIA. In pochissimi mesi Ilardo ricostruisce l’intero organigramma di Cosa Nostra delle provincie orientali siciliane, facendone decapitare i vertici. Ma l’obiettivo principale di Ilardo è quello di permettere la cattura dei grandi latitanti: Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Pietro Aglieri. Gli arresti provocati creano un buco di potere per cui Luigi Ilardo scambierà parecchie lettere con Provenzano in qualità di esponente di spicco dei Madonia. Oggi noi sappiamo come Provenzano utilizzasse i famosi “pizzini” proprio grazie ad Ilardo e fu sempre lui a far stilare un nuovo identikit dello stesso Provenzano, la cui ultima foto conosciuta risaliva a trent’anni prima. Questi contatti conducono Ilardo, nome in codice “Oriente”, sino al tanto atteso incontro con Provenzano: lì sarebbe dovuto scattare l’arresto ma invece non accade nulla. Proprio da questo mancato arresto nasce il processo Mori, che in modo improprio i mass media chiamano il processo del “papello”, della trattativa».

Sarà un caso che non si verifichi alcuna strage proprio dal ’94 in poi?

«Questo è un fatto certo. La domanda è perché Cosa Nostra abbia rinunciato alle stragi. Di certo Cosa Nostra dal ’93 ha subito colpi durissimi come mai prima d’allora. Probabilmente bisogna tener conto anche del fatto che non si poteva più ricorrere alle stragi per ottenere ciò che si voleva e il tutto si riscontra nelle migliaia di pagine di intercettazioni, soprattutto dei picciotti. Molti mafiosi hanno improvvisamente avvertito un peso morale dovuto alla mobilitazione della società civile oltreché dei mass media. E’ un interrogativo aperto, secondo alcune interpretazioni è perché c’erano precise garanzie in loro favore, secondo altre è perché il potere è passato nelle mani di Provenzano che in una famosa lettera scrisse: bisogna capire se un uomo fa più danni da vivo o da morto».

E’ una mafia che si fa stato dunque

«La mafia ha sempre cercato di farsi stato. Del resto è risaputo che uomini di mafia o legati ad essa, hanno gestito il potere amministrativo e politico già durante il biennio alleato fra il ’43 e il ’45. Stavolta ci hanno riprovato ma forse, credo, gli uomini di Riina e di Bagarella sono stati fottuti, perché le stragi alla fine gli si sono ritorte contro visto che da lì si giunge all’arresto di Riina e il potere passa nelle mani di Provenzano. Il metodo mafioso, come diceva Sciascia, si è certamente espanso nel nostro paese, anche lì dove sembrava impossibile. Non intendo solo il riciclaggio di denaro ma l’intimidazione mafiosa, la desertificazione dei diritti e la tendenza a privilegiare sempre il profitto, ad ogni costo».

Ma c’è un’altra interpretazione, più politica….

«Se fosse vero che Cosa Nostra abbia finanziato il rampante imprenditore milanese, attuale presidente del Consiglio, negli anni ’70, allora saremmo davvero davanti ad una commistione disastrosa. Ma è un’ipotesi, servono fatti certi e incontrovertibili. Io penso che una qualsiasi entità statale sia sempre più forte di un’entità criminale, anche apparentemente invincibile».

Aveva ragione Berlusconi (e Riina) quando disse che La Piovra fa un torto all’immagine dell’Italia?

«Nel nostro paese è un comune sentire dire che i mafiosi sono pochi, troppo pochi per incidere davvero. E’ un comune sentire dire che nonostante gli scandali, il paese andrà avanti. Ma questo metodo auto-assolutorio è molto pericoloso. In Italia a distanza da quarant’anni dalla strage di Piazza Fontana qualcuno può ancora affermare che non tutto è chiaro. Questo è un paese senza verità, perché le verità fanno male e non ci piace dircele. D’altronde un imprenditore come il nostro presidente del consiglio, bravissimo nell’avere venduto sogni nell’ambito televisivo, nel momento in cui diventa politico è ovvio che non possa scendere di livello venendoci a dire che non possiamo prendere sotto gamba la mafia. Lui è un venditore di sogni, di speranze, fa parte del suo dna. Ho capito le sue affermazioni nel ’94 ma dopo 15 anni qualcuno avrebbe dovuto dirgli che non era proprio il caso di ripeterle. Vuol dire che o lui ha capito il vero spirito di questo paese, che siamo incapaci di sentire le verità, oppure che a lui come imprenditore-politico, conviene dire certe cose…»

Perché?

«Diciamo che non c’è un solo collaboratore di giustizia che non abbia parlato di come vota Cosa Nostra. Non c’è una sola intercettazione fra mafiosi, dei flussi di voti per certi partiti, in modo particolare per il partito del presidente del consiglio. Le voci interne a Cosa Nostra vanno tutte in una direzione, serve poca immaginazione».

Quando salta fuori “il papello” per la prima volta?

«Il primo a parlarne è Giovanni Brusca ma tutti ricordano come per mesi fece il finto pentito, tirando in ballo chiunque. Adesso i suoi racconti ci illuminano ma nel ‘96/97 non ancora. Probabilmente è vero che dieci anni fa fosse possibile scoprire tutto ma forse mancavano le condizioni per farlo, anche la politica e gli amministratori avrebbero dovuto essere più chiari e più decisi in questa battaglia».

Con Ranucci vi siete occupati largamente della strage di Via D’Amelio

«La strage di Via d’Amelio è molto complessa, quella storia dovrebbe essere ricostruita da zero. Con Sigfrido abbiamo scoperto nuove omissioni che si vanno a sommare a tutte quelle che già conosciamo. Quel processo andrà rifatto visto che uno dei pentiti si è scoperto che era stato addestrato per auto-accusarsi e attualmente ci sono 4 poliziotti sotto inchiesta: una vicenda incredibile eppure nessuno ne parla. Insomma è noto che il blocco motore, cui era attribuita l’esplosione, è apparso in via D’Amelio tredici ore dopo la strage e poi c’è la vicenda arcinota dell’agenda rossa, che se non fosse triste sarebbe una barzelletta vera e propria».

C’è una considerazione con cui vorresti chiudere?

«Tante volte con Sigfrido abbiamo pensato ai figli ed alla compagna di Luigi Ilardo. Perché questi ragazzi adolescenti e questa donna ormai matura, sono stati lasciati soli dallo Stato. Secondo noi Ilardo, grazie alla sua collaborazione durata due anni e mezzo, è come se avesse pareggiato i conti ma questi due ragazzi non avranno più fiducia nello Stato, nella parte sana di questo paese che ha tradito loro padre, anche soltanto stando in silenzio. La storia di un mafioso che diventa infiltrato – il primo ed unico in Cosa Nostra – andrebbe certamente conosciuta. E ricordata».

Nicola Biondo, giornalista freelance, scrive per l’Unità. È stato consulente di diverse procure. Ha lavorato nella redazione di -Blu notte- di Carlo Lucarelli.

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