Virotopia: un esperimento sociale. 40 giorni di lockdown analizzati da Francesco Tigani

Virotopia: un esperimento sociale. 40 giorni di lockdown analizzati da Francesco Tigani

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Virotopia: un esperimento sociale. 40 giorni di lockdown analizzati da Francesco Tigani

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martedì 11 Agosto 2020 - 16:33

La recensione del professore dell'Università di Messina Raffaele Manduca su un testo che offre un'analisi su più livelli di ciò che è stato il primo mese e mezzo di lockdown

Pensare la pandemia nello stesso tempo in cui essa viene vissuta, è questo l’orizzonte dentro cui si gioca il breve ma incisivo intervento in libreria da qualche settimana di Francesco Tigani per i tipi della casa editrice romana Aracne, VirotopiaUn esperimento sociale con prefazione di Valeria Smedile. Si tratta di una riflessione che dura sei settimane, un percorso a tappe sulla pandemia da Covid–19 nel primo mese e mezzo di lockdown; il periodo forse più buio attraversato dal nostro paese. Un tempo che fornisce l’occasione all’autore di riflettere sui provvedimenti politici e sanitari adottati, sul dibattito fra gli scienziati e nella società, sulle situazioni che di volta in volta il virus ha prodotto o configurato.

La base sono “le sensazioni, le emozioni, gli spunti fulminei che emergevano e si affastellavano durante quei quaranta giorni passati nel deserto, in preda al più anacronistico e secolarizzato degli esicasmi”. Sei saggi a cui l’autore non dà volontariamente uniformità, non preoccupandosi neppure di una loro revisione tenendo conto di quello che è successo dopo, al fine di conservare il clima dentro cui la sua riflessione andava maturando. Sebbene il volume sia quindi costruito a partire dal vissuto concreto nei 40 giorni iniziali del lockdown, attesta una non comune capacità di riflessione e di razionalizzazione teorica cui i sempre convincenti e pertinenti richiami letterari, filosofici, storici ma anche cinematografici, danno sostanza. Un discorso a tutto campo che tocca le questioni etico-sociali e politico- scientifiche che una pandemia, pensata fin lì come evenienza del tutto estranea al nostro orizzonte civilizzato occidentale, tutto avviato verso la divinizzazione dell’umano ha, non solo arrestato, ma smascherato in tutta la sua valenza innanzitutto ideologica. 

Per Tigami il tempo del lockdown è un momento di abdicazione della democrazia, di quella libertà individuale che ha rimesso al solo potere costituito la lotta al virus e al ministero della protezione civile la titolarità della verità. Il tema dell’isolamento, centrale in ogni utopia (l’isola distaccata dall’ambiente circostante), e il discorso sul limen permettono di interrogarsi sull’endiadi sicurezza protezione, a partire da quelle imposizioni dall’alto che sembrano configurare una situazione simile a quella decritta dal film Village dove le oscure presenze che impediscono agli abitanti di allontanarsi dal villaggio, sono in realtà creazioni degli stessi anziani per scongiurare la fuga degli stessi abitanti.

“Io resto a casa” diventa accettazione dell’amarezza di una ingiusta condanna, mentre il riferimento al  bentamiano panopticon, sintesi perfetta fra sicurezza e protezione, appare l’esito più prossimo di un paese più protetto ma meno sicuro con l’avanzare delle piattaforme digitali, dello smart workink dei vebinar, a prefigurare modalità di relazioni in absentia, che annunciano la fine di istituzioni come quella scolastica, per sua essenza luogo di aggregazione e di incontro fisico mentre è l’intero spazio a impoverirsi come le città deserte cui manca l’uomo. L’ecclissi della politica uno dei mali della nostra epoca si accentua e si radicalizza ed emerge la fragilità delle democrazie e persino il capitalismo appare in difficoltà nel dare risposte. Il covid diventa quindi un fattore di “naturale” riduzione dei diritti, mostrando quanto di culturale, ideologico e effimero ci sia in parole d’ordine e concetti ritenuti non negoziabili dal nostro moderno mondo liberista e democratico.

Mentre la medicina assume il ruolo un alter ego della religione, impoverita anch’essa, anzi quasi svuotata da un formalismo e da un perbenismo conformista che ne annulla la funzione di scudo verso la paura e la morte persino al di là della ragione, l’epidemia si rivela come il risvolto sanitario della pantopia, l’utopia universale che contiene tutti i modelli utopici possibili, prefigurando una dittatura medica ultima forma di totalitarismo (e si pensi al robespierriano Comitato di Salute pubblica), nonostante la scienza palesi tutta la sua fallacia e il virus riveli la pienezza dei suoi limiti. La pandemia così, conclude Tigami, “ha bussato alle porte del mondo come un ospite inatteso e ha tradito la buonafede del suo anfitrione sottraendogli beni inestimabili. Ha agito in maniera più cinica e subdola persino del più inquietante fra tutti gli ospiti, il nichilismo”, rubandone le spoglie: il suo sublime spaesamento, l’orrore abissale, la vertigine straniante.

Ma il virus ha pure interrogato potentemente l’uomo “sul significato del tempo e sul modo migliore di spenderlo” mettendo a nudo, nella sua essenziale valenza ideologica, l’idea dominante di una perenne corsa senza fine per arrivare a risultati sempre più alti: un miraggio contrario a una realtà di perenne inappagamento e arsura imposta dal ciclo economico all’uomo. La crisi in definitiva potrebbe così offrire il destro per ricostruire la società su basi nuove, solo si volesse profittare del lockdown per riconsiderare il proprio stile di vita mentre il Covid-19 potrebbe innescare la prima rivoluzione anticapitalista e antimondialista della storia. Potrebbe appunto…, “In caso contrario, varrà la lucida e disincantata analisi di Brecht sul destino di tutte le guerre, dove sono sempre i poveri a rimetterci: che siano fra i vincitori o fra i vinti, è lecito aspettarsi che patiscano ugualmente la fame”.

Raffaele Manduca
Professore Associato di Storia Moderna -Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne – Università degli Studi di Messina

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