30 anni di Tangentopoli, parla il presidente dell'Anm Santalucia: "Vi spiego perché a Messina fallì"

30 anni di Tangentopoli, parla il presidente dell’Anm Santalucia: “Vi spiego perché a Messina fallì”

Alessandra Serio

30 anni di Tangentopoli, parla il presidente dell’Anm Santalucia: “Vi spiego perché a Messina fallì”

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mercoledì 02 Marzo 2022 - 07:30

30 anni fa Tangentopoli, da Milano a Messina. Dove però poche inchieste arrivarono a condanna. Ecco perché secondo il presidente dell'Anm Santalucia, che parla anche della riforma del Csm e della presunzione d'innocenza.

A 30 anni da Tangentopoli, la magistratura italiana è ad un passaggio cruciale che culmina nella riforma del Consiglio superiore della magistratura. Per Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, non si tratta di una “resa dei conti” legata a quella stagione, ma il rapporto tra magistratura, politica e cittadini è da ricostruire. Tangentopoli ha fallito? Il giudizio resta sospeso, per Santalucia, che non fa nomi ma non lesina le critiche per quella magistratura che evidentemente “non è stata ritenuta affidabile”.

Certamente a Messina qualcosa non ha funzionato: poche le inchieste che ressero ai processi, pochissime le condanne definitive. Nell’intervista, un confronto a tutto tondo col magistrato che lasciò Messina alla vigilia di quel terremoto ma si occupò di alcune delle prime inchieste e che oggi guida la più importante associazione di toghe: dal caso Palamara alla legge sulla presunzione d’innocenza, passando per il ruolo dell’informazione.

A trent’anni esatti da Mani Pulite, la riforma del Consiglio superire della Magistratura. E’ il compimento di un ciclo?

Non credo si possa leggere in questi termini di stretta causa- effetto. Certamente dopo tangentopoli i rapporti tra magistrature e politica sono stati segnati da un’accesa conflittualità, dovuta secondo me ad un malinteso di fondo: che il controllo della legalità che la magistratura esercita costituisca uno sconfinamento nella politica.

E’ un malinteso o un pretesto?

Sono convinto si tratti di un equivoco, e va spazzato il campo una volta per tutte: non c’è stato alcun disegno politico della magistratura, che si sia mossa unitariamente per comprimere gli spazi della politica. Sulle singole questioni possiamo discutere, così come sulle singole vicende giudiziarie, non siamo impeccabili e le correzioni di tiro sono utili anche a noi.

Quindi non c’è, o non c’è stato, alcuno scontro con la politica?

C’è bisogno di una riforma, siamo stati i primi a chiederla. Lo scandalo Palamara ha sicuramente messo in luce che alcune cose vanno corrette e d’altronde già nel 2002 la legge elettorale fu indicata dalla magistratura associata come una stortura. Siamo favorevoli alle buone riforme, in un momento difficoltà sono essenziali, auspichiamo un legislatore avveduto che non comprima l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.

Torniamo a Tangentopoli, che non ha risparmiato Messina ma che non ha avuto qui la stessa fortuna di Milano, a guardare i risultati delle inchieste e dei processi: pressoché nulli, salvo rare eccezioni. La prima differenza che colpisce, è che a Messina non ha parlato nessuno, o quasi.

No, non direi, qualche collaborazione c’è stata, qualcosa è stata svelata dagli stessi protagonisti. Certo, il successo delle inchieste di Mani Pulite si basava sulla capacità di rompere  il patto di omertà tra corruzione e corruttore. Che a Messina, come in altri luoghi, ha maggiormente resistito.  Vede, a Milano la classe economico-imprenditoriale ha percepito che quel tipo di sistema che esisteva, tenuto in piedi dalla corruzione, non funzionava più, non era più conveniente, ed ha deciso di parlare. Ma soprattutto ha percepito che poteva contare sull’efficacia dell’azione della magistratura. Le collaborazioni, di qualunque tipo, si trovano quando l’azione giudiziaria appare affidabile. A Messina quelli che sapevano si sono ritratti perché hanno pensato che  potevano sopravvivere a quella stagione.

C’è stata anche un’altra specificità siciliana? Mi spiego meglio: la mafia c’entra, in questo “fallimento”?

In una analisi generale è ovvio che dove i così detti colletti bianchi vivono in un contesto di maggiore intreccio con la criminalità mafiosa il muro di omertà è ancora più forte, ci sono in gioco anche interessi altri da garantire, oltre a quelli degli imprenditori e dei politici.

Un’altra differenza con Milano, che colpisce, è la profonda spaccatura che si creò all’interno della magistratura messinese. Se ne occupò addirittura la Commissione antimafia, che redasse un duro j’accuse contro la gestione delle inchieste in quegli anni.

Furono anni di tensione, è vero, si manifestarono profonde difformità di vedute su come gestire quelle inchieste. Ma non giudico negativamente l’intervento dell’Antimafia. Quando i conflitti ci sono, sviscerarli e portarli alla luce è sempre un bene.

Ne è venuta fuori una magistratura migliore?

Oggi della magistratura si da per lo più una rappresentazione negativa. Mani Pulite riuscì a costruire l’immagine di una magistratura che trasmetteva fiducia. Oggi invece si tende a sottolineare soltanto le cose che non vanno. Ma la magistratura non è fatta solo di “casi Palamara”. Siamo 9 mila, e affrontiamo un lavoro enorme in condizioni organizzative quasi sempre di disagio, con scarse risorse.

Quindi secondo lei state ancora pagando il conto di quella stagione?

 Paghiamo ancora le scorie di questa “rappresentazione”, ma dobbiamo ricostruire un tessuto di fiducia intorno ai magistrati, non è alla magistratura che serve ma alla democrazia, è la democrazia che non può fare a meno di una giurisdizione autonoma e indipendente.

Dopo 30 anni da quelle inchieste la corruzione resta uno dei principali problemi del nostro paese.

Il momento repressivo non basta mai, bisogna “investire” sui meccanismi di prevenzione. Non basta innalzare le pene per i corruttori e i corrotti se poi non si interviene per rendere “svantaggiosa” la corruzione. L’Anac è un ottimo strumento di prevenzione, la legge Severino è stato un ottimo momento, adesso bisogna ridare le adeguate risorse alla magistratura e restituire smalto all’azione giudiziaria. Ci sono ottimi magistrati in Italia, ottimi giovani magistrati che devono essere messi in condizione di fare il loro lavoro e la magistratura deve essere rappresentata per quel che effettivamente è.

Ecco, la legge sulla presunzione d’innocenza non sembra aiutare, in questa direzione…

La ratio di fondo è condivisibilissima, dobbiamo arrivare all’obiettivo di proteggere chi è ancora sottoposto al vaglio dell’autorità giudiziaria. Ci sono delle fasi delle indagini che vanno assolutamente preservate col segreto e non tutto può essere comunicato, Penso alle intercettazioni, a quel che materiale che non viene poi utilizzato dai pubblici ministeri, ecco rendere pubblico quello è certamente una invasione della sfera privata dei soggetti. Tutto il resto, però, deve essere conosciuto e conoscibile dai cittadini. Quindi l’obiettivo della presunzione d’innocenza è condiviso dall’Anm, ma sul modo in cui si è intervenuti ci sono delle incongruità: ingessare tutta la comunicazione in comunicati stampa è un modo per non dare alcuna informazione, invece è bene che l’opinione pubblica sappia, e che ci possa quindi controllare.

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