L’editoriale. Il potere appare distante dalle sorti di una città che continua a correre verso il cemento

L’editoriale. Il potere appare distante dalle sorti di una città che continua a correre verso il cemento

L’editoriale. Il potere appare distante dalle sorti di una città che continua a correre verso il cemento

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giovedì 31 Dicembre 2009 - 10:30

La politica non riesce a dare le giuste risposte alla crisi che avanza, l’opposizione viene meno alla sua ragione sociale. E l’Università deve aprirsi al confronto pubblico

Trentasette persone da ricordare. Trentasette ferite che sanguinano ancora. Questa riflessione sull’anno che va e su quello che viene non può che cominciare da loro, dalle trentasette vite perdute a Giampilieri, Molino, Altolia, Briga, Scaletta. Non può che cominciare da chi non c’è più, mentre chi è riuscito a sopravvivere al fango assassino oggi rischia di seppellire, una volta per tutte, la vaga speranza che Messina sia una terra redimibile, un posto in cui valga la pena vivere, perché è ancora possibile costruire un futuro. Invece la città in cui abbiamo imparato il mestiere di vivere appare povera di prospettive: rovinando sulle case, la montagna assassina ha fatto cadere la maschera della benevolenza da sempre attribuita a un potere che, al contrario, appare distante e disinteressato alle sorti di questa città.

Suona stonato, oggi più che mai, il ritornello dei governi amici a Roma e Palermo, cantato in tutte le tonalità da una classe dirigente che la ha svelato impotente a fronteggiare la situazione creata dalla tragedia. E il sindaco Buzzanca disarmato, immerso in uno scenario da day after. Dall’alluvione al resto, il re è nudo anche al cospetto dei tanti drammi, grandi e piccoli, che questa città propone quotidianamente e che il nostro giornale racconta giorno dopo giorno. Se le aziende perdono terreno, le famiglie non sono le formiche di un tempo, capaci di accantonare le risorse di cui servirsi nei periodi di magra. Una crisi a lungo attesa è stata servita inaspettatamente alle nostre tavole, l’incertezza è diventata paura e ora molti negozi, tessuto connettivo dell’economia cittadina, vanno avanti alla meno peggio, sul filo del rasoio ogni fine mese. E quando il gioco si fa duro, a giocare dovrebbero essere i duri. In una realtà come la nostra – dove gli imprenditori sono quasi esclusivamente appaltatori, che agiscono sulla base dei flussi di risorse pubbliche – il ruolo dei duri lo hanno tradizionalmente ricoperto i politici. Attirando finanziamenti e sponsorizzando idee di sviluppo plausibile.

Oggi toccherebbe proprio alla politica dare la spinta decisiva; almeno preparare il trampolino per lanciare Messina nel futuro. Peccato che la nostra classe dirigente abbia abdicato e peccato che proprio adesso sia rimasta orfana dell’idea stessa di futuro. Così, se questa città corre, lo fa nella direzione di sempre, quella del cemento che ha il limite di considerare il territorio come un bene inesauribile. Non è detto, invece, che le nostre colline siano disposte a sopportare all’infinito l’aggressione dell’uomo. E mentre betoniere e ruspe girano a pieno regime, la città perde opportunità e terreno sotto la pressione congiunta di territori che si attrezzano e lavorano a un’idea di futuro economicamente sostenibile. La marginalità di Messina rispetto a Catania e Palermo si misura ormai anche nella nostra provincia, mentre i centri direzionali fuggono verso l’Etna o la Conca d’Oro e gli investimenti sorvolano appena lo Stretto che non sa cosa farsene di un ponte comunque estraneo e inquietante.

In un terreno del genere dovrebbe essere facile, a una qualunque opposizione, far valere le proprie ragioni, ma sembra che la ragione sociale del Pd qui sia venuta meno. E se, da una parte, a Messina si replica la situazione isolana di un centrodestra che è insieme governo e opposizione, dall’altra la concorrenza interna al centrodestra e quella col centrosinistra rischia di esaurirsi nella contesa delle clientele e nell’occupazione di funzioni strategiche, che siano in grado di incanalare consensi e finanziamenti. Non è un caso, a conti fatti, se sempre più giovani fanno la valigia e cercano fortuna altrove. Non è un caso, insomma, se questa città che invecchia è sempre meno un posto per vecchi. I segnali di reazione, per quanto timidi, ci sono; vengono anche dalla Provincia regionale e dall’Università. La prima cerca di riprendersi il territorio dialogando con i Comuni, svolgendo il ruolo di ente coordinatore che la legge le attribuisce. L’ateneo, assottigliatosi l’entroterra naturale costituito dalla Calabria, gioca invece la carta dell’apertura al Mediterraneo e all’Europa, Il suo sapere e i suoi contatti potrebbero rivelarsi vitali per una città frastornata. A patto che il magnifico rettore Tomasello metta da parte i tentativi di sottrarre l’Università al confronto pubblico, trasformandola in articolo di fede. La città deve potersi interrogare liberamente anche sulla selezione del corpo accademico, perché da quello dipende il valore dei titoli che i suoi figli, ogni giorno, devono fare valere sul mercato delle idee, dei saperi e del lavoro, dei progetti.

Nino Arena

(foto Dino Sturiale)

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