Al Teatro Vittorio Emanuele di Messina si chiude il sipario per “Caos. O della disobbedienza delle voci” scritto da Giusi Arimatea, con la regia di Mauro Failla
MESSINA – Un grande letto bianco coperto da infiniti rotoli di carta scritta, che si innalzano verso l’alto, come colonne o spirali. Alle spalle, abiti e frammenti di vestiario restano sospesi nel blu intenso dello sfondo. In questo scenario sognante ed evocativo —il cui riferimento va immediatamente al surrealismo di René Magritte—, assistiamo agli ultimi giorni di vita di Luigi Pirandello e al suo confronto finale con le voci di tutti i personaggi che proprio da quella carta ha fatto nascere, che in quella carta hanno preso forma e che da quella carta, adesso, cercano di liberarsi.
La visionaria scenografia firmata da Cinzia Muscolino, che cura anche costumi e grafica, permette agli spettatori di immergersi subito nella storia sospesa tra sogno e riflessione metateatrale di “Caos. O della disobbedienza delle voci”, produzione Clan degli Attori Clan Off Teatro e E.A.R Teatro di Messina – Centro di Produzione Teatrale, scritto da Giusi Arimatea, con la regia di Mauro Failla e il disegno luci di Giovanni Maria Currò.
Pirandello e i suoi personaggi
Al Teatro Vittorio Emanuele, Tino Calabrò dà voce a un Pirandello diverso, disarmato, fragile, ma sempre lucido e consapevole, un Luigi Pirandello uomo prima che monumento letterario. Non è il genio che crea, ma l’uomo che ascolta. Ascolta le voci, disobbedienti, delle sue creature. Ad animarle, offrendo loro corpo, carattere e realtà, sono Giuseppe Capodicasa, Michele Carvello, Giulia Mondello, Damiano Venuto.
Ciascuno dei personaggi pirandelliani ha una recriminazione da fare al suo autore, un rimprovero, un’insoddisfazione. Si parte dal Vitangelo Moscarda di Damiano Venuto, rappresentato con un naso rosso da clown e dalla Madama Pace di Giulia Mondello. Si passa, poi, a Mattia Pascal e Adriano Meis (Damiano Venuto e Giuseppe Capodicasa): il primo, a torso nudo, indossa solo dei pantaloni neri, il secondo, invece, senza pantaloni, indossa solo una giacca nera. E, ancora, l’Enrico IV di Michele Carvello, con un mantello rosso, una vistosa collana con “IV” sul petto e la corona. Si continua con la signora Ponza di Così è (se vi pare), sempre di Mondello, pronta, stavolta, a svelare il suo viso; un inedito Belluca, qui diventato la Bellalucia di Capodicasa e, infine, Cotrone (ancora Carvello), il mago protagonista dei Giganti della montagna. Tutti chiedono a Pirandello di più, di non essere abbandonati, di poter rinascere, di essere liberi.
Tanta morale
L’incontro con i personaggi diventa l’espediente per riflettere su quelle tematiche care alla poetica pirandelliana (l’identità e la maschera, la follia, la realtà e l’apparenza, le verità mutevoli), trasportandole nel nostro tempo, fatto di post e stories, di like, algoritmi, filtri e inautenticità. Questo passaggio, però, accompagnato anche da musiche contemporanee, finisce per attenuare la forza e l’audacia di un pensiero che è sempre figlio del suo tempo, che nasce da un contesto e da una storia precisa, che da lì trae la sua linfa vitale.
Il momento più riuscito, secondo me, infatti, è quello che ci riporta alla vita di Pirandello, il suo incontro con la moglie Antonietta Portulano (Mondello), i disturbi mentali della quale furono l’ispirazione di tutte le storie dello scrittore siciliano, facendo di lei non la consorte malata ma la musa dell’artista. Ecco che il sentimento di tenerezza che unisce i due sposi colpisce ed emoziona il pubblico, senza bisogno di forzature o retoriche, solo grazie all’intensità di un legame capace di costruire mondi nuovi.
Ciò di cui soffre un po’ il testo, è, forse, questa ricerca insistita di una morale, scelta curiosa per un lavoro che vuole come protagonista proprio chi ha sempre criticato con ironia ogni forma di moralismo. La scrittura di Pirandello è sempre etica, ma mai moralistica. Pirandello non vuole impartire alcuna lezione, mette a nudo le contraddizioni umane senza cercare di risolverle, con uno sguardo sempre compassionevole e mai giudicante, per comprendere e non per condannare. Non esiste, per lui, una verità unica, né una morale universale.
“Caos” perde un po’ questo respiro, cedendo alla tentazione di dover insegnare per forza qualcosa e così, pian piano, Pirandello svanisce sempre di più. Troppo spesso il testo di Arimatea si rivolge a un “voi”, allontanandosi da quell’orizzonte comune del “noi”, caro al teatro pirandelliano. E le parole, a volte, sembrano abbandonare il loro contenuto, impoverirsi di significato e restare solo forma estetica, esercizio di stile; le voci si privano, allora, del vigore tipico della vera disobbedienza e a risentirne è anche il ritmo dello spettacolo.
Ma questo è, probabilmente, solo il giudizio affezionato di chi con Pirandello ha imparato a guardare il mondo. “Caos” resta un lavoro coraggioso, attento e pieno di passione, con un’intensa e simbiotica interpretazione e la forza di riportare in scena un autore che non smette mai di interrogarci, con sguardo e “voci” nuove.
scritto da Giusi Arimatea
da un’idea di Mauro Failla
con Tino Calabrò, Giuseppe Capodicasa, Michele Carvello, Giulia Mondello, Damiano Venuto
aiuto regia Giusi Arimatea
disegno luci Giovanni Maria Currò
scene, costumi e grafica Cinzia Muscolino
regia Mauro Failla
produzione Clan degli Attori Clan Off Teatro eE.A.R Teatro di Messina – Centro di Produzione Teatrale
