Ci vorrebbe un amico

Ci vorrebbe un amico

Giusy Pitrone

Ci vorrebbe un amico

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mercoledì 27 Marzo 2019 - 07:44

Noi siamo gente che non sa aspettare. Ovviamente non mi riferisco al matrimonio, al lavoro, ai figli, al saldo dei debiti – ché in questo siamo tutti abilissimi procrastinatori – ma a quei contesti in cui è fisiologico attendere il proprio turno. Dalla salumeria alla banca, dal medico al negozio di telefonia, dagli uffici pubblici ai semafori, c’è poco da fare, bisogna imparare a gestire l’attesa. Ma noi, irrequieti, ci ingegniamo per evitare a tutti costi di star fermi lì a contemplare le doppie punte di chi ci precede. Pertanto, ricorriamo agli amici, e agli amici degli amici. Conosci qualcuno al quartiere? Nostra domanda tipica, atta non a testare la capacità dell’interlocutore a costruire una degna rete di contatti sociali, bensì ad evitare la fila, a passare dal retro, a fissare un appuntamento anche in nottata, con un impiegato amico che magari in pigiama e giacca da camera, possa farci uno strabenedetto certificato.

La burocrazia del resto andrebbe una meraviglia se fosse tutto lasciato alla rete delle conoscenze. Quantomeno i dipendenti sarebbero più gioviali con un amico o un parente. Parliamoci chiaro, la maggior parte di loro dovrebbe ricevere lo xanax insieme ai buoni pasto. Ti fanno sentire in colpa per il solo fatto di esistere. È come se gli consumassimo l’ossigeno e si vendicassero parlando pianissimo – emettono onde sonore simili a quelle dei delfini – tanto che tu sei costretto o a fingere continuando ad annuire, o a ripetere come? scusi? prego? una decina di volte, sentendoti come il nonno della pubblicità dell’Amplifon che non capisce un piffero di quello che i nipoti gli stanno dicendo. Il cortesissimo signore/a, a quel punto, inizia a urlarti contro davanti a tutti, ma tu ringrazi lo stesso, non per la gentilezza, ma perché hai finito e puoi andar via verso la civiltà e un mondo migliore. Ora, perché sottoporsi a tutto questo se tuo cognato ha un cugino all’Ufficio del Lavoro? Avrai tu uno straccio di conoscente, che so, all’Amam, per ricambiare sto favore!

L’idea di perdere tempo in coda ci fa paura. Provate a dire a qualcuno che incontrate per caso che state andando all’ufficio postale, magari nei giorni di pagamento delle pensioni. Se gli diceste che state andando a donare organi e tessuti – che finché sei in buona salute sono più utili – generereste meno compassione. Figuriamoci in banca, o in uno di quegli uffici in cui il display segna il numero 12 e tu hai appena tirato fuori il numero 427. Hai il tempo di prendere il caffè, il pane per pranzo e una laurea in giurisprudenza.

Ma hanno ragione. Fuori c’è il sole, il profumo del caffè, la melodia dei clacson, per quale motivo affrontare l’oblio dell’attesa? Che poi non puoi neanche approfittare del fermo forzato per riflettere o guardare quegli interessanti video di facebook sulla giusta postura da tenere sul water, che si mettono in atto tutta una serie di dinamiche sociali fastidiose e urticanti da parte degli habitué delle code. Il primo step è il tentativo di conversazione. Lei che numero ha? A questa domanda già ci sale il nervoso. Perché? C’è un’estrazione finale in cui il numero fortunato vince un cesto di salumi e formaggi? Poi si passa all’argomento più amato dai messinesi, la salute. Ed ecco che ti tocca ascoltare racconti di unghie incarnite, cataratte e reflussi gastrici senza lesinare sui particolari. Quando i tempi si allungano qualcuno comincia con la tecnica dello sbuffo e il continuo guardare l’orologio. Questo è un trucco vecchio come il mondo. Simulano una premura dovuta al ragù lasciato sul fuoco, al bambino di 25 anni in macchina, a un uomo aperto su un tavolo operatorio, in modo da suscitare l’empatia di qualcuno che sia disposto a cederti la priorità pur di farti togliere dai maroni. I più nervosi attaccano poi con commenti poco edificanti sui dipendenti dell’ufficio in questione. Già noi abbiamo una naturale predisposizione a parlare da soli con tanto di gestualità, la frustrazione dello stare in coda fa crollare ogni freno inibitorio, per cui si parte dallo stipendio esoso che i dipendenti si mmuccano per far aspettare la povera gente, fino ad arrivare alle più alte cariche dello Stato, colpevole sempre e comunque. Mi fermo qui, ma in certi contesti l’escalation continua verso piani ancora più alti. Per concludere, arriva la minaccia. Basta, minnivaiu, detto come se ci si aspettasse dai presenti una reazione, tipo suvvia, non lo faccia, chiamiamo il bar, oppure addirittura dal preposto all’ufficio che lasci tutti e tutto per sbrigare il signore che ha perso la pazienza.

Un proverbio cinese dice che a chi sa attendere, il tempo apre tutte le porte. Ecco, noi messinesi troveremmo sì tutte le porte chiuse, ma sicuramente un conoscente all’Agenzia delle Entrate.

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